venerdì 30 novembre 2012

Alfiere in A4

Di viaggi, ritardi, partenze e maledetta sfortuna.

Muovono i neri: Pedone in E6.
Bisogna portare fuori il cane. Fare la valigia, pulire la cucina che ci hai rovesciato la caffettiera. E sì, il caffè è riuscito a schizzare ovunque, neanche avessi sgozzato un orso durante una battaglia all'ultimo sangue.
Ah sì, magari farsi la doccia, e perché no, la tinta, che ti senti un po' una piccola fiammiferaia nata dall'incrocio perverso tra Pel di Carota e Paperino. 
Sì certo. E la valigia.
Mi raccomando. Viaggia leggera come al solito. Un ricambio in meno dell'indispensabile, computer, macchina fotografica, caricatori e cose per disegnare, che non puoi perdere il colpo. 
Le basi dei viaggiatori autistici.

Muovono in bianchi: Pedone in E6. Perdi un pezzo. 
A volte il multitasking funziona malissimo. 
Scordati la doccia e la tinta. Ci penserai a Livorno.
E gli anfibi te li allaccerai bene in treno. 
Bisogna portare il cane dalla nonna. Prendere il treno. Affrontare lo sciopero.
Hai tirato scemo il tuo santo compare Biondo Vichingo nelle ultime 24 ore. Cerca almeno di arrivare prima che finisca il giorno del suo compleanno.
Perfetto. Il primo treno garantito è alle 15.00 se fai i salti mortali, prendi a gomitate la gente, dribbli alla Holly e Benji i mezzi pesanti dei lavoratori dell'ILVA che stanno bloccando le vie della città (a ragione tra l'altro), se non ti fermi troppo a parlare con loro, se riesci a scordarti il concetto di autobus oggi, se il pranzo con la madre del tuo ex non dura troppo a lungo, dovresti riuscire ad arrivare in stazione esattamente SEI minuti prima del treno, fare il biglietto alla velocità della luce (dopotutto sei un drago con le macchinette, mica come gli idioti davanti a te in coda che ti fanno perdere perdere tempo), dovresti riuscire a farlo in 12 millesimi di secondo, pagare, bestemmiare, correre al binario con le valigie, salire sul treno, bestemmiare di nuovo, e metterti in viaggio. Sciopero o non sciopero.
Che insomma, stai sempre in giro comelamerdaneitubi™ non hai paura di niente. 

Muovono i neri: Torre in F8. 
«No guarda, davvero c'ho due spicci, giusti per il biglietto non te li posso dare… due spicci!» il portafogli nella borsa non c'è.
Guardi meglio.
C'è l'agenda rossa, con l'unica copia esistente dei “preziosissimi” testi del Chourmo.
C'è il cappellino di lana che ti sei levata (a furia di correre hai iniziato a sudare a schifo anche con la tramontana che ti taglia la faccia).
Be' ci sono i sacchettini ripiegati per essere civili quando porti fuori il cane (e che speri sempre che non siano bucati). A dire il vero c'è anche un rossetto, un burro di cacao, del tabacco sparso, del tabacco nel pacchetto, filtri cartine, caricabatterie del telefono, penne a caso, la Moleskine nera, volantini a caso, una lampada da terra, una fioriera, un cerchione della bicicletta, un paio di mattoni (che non si sa mai) un coccodrillo rosa ma non il portafogli. 
Mentre lasci partire il treno con amarezza, sbianchi, quasi svieni, sudi fortissimo e tiri una bestemmia silenziosa (ma così da cuore che sicuramente gli sciamani e le creature superiori ti avranno sentito da Nairobi a Oslo. Come minimo).

Muovono i bianchi: Cavallo in F8.
Indovina un po'? Hai perso un altro pezzo. Che storia eh?
Ok, magari uno dei coinquilini è ancora a casa, il portafogli anche e tu sei salva. Tipo.
No, ok, l primo dei due non c'è.
Magari c'è anche l'altro. Oh bene. È a casa. Gli chiedi di cercarti il portafogli e di venirti incontro. Forse puoi ancora farcela senza ulteriori sbattimenti, che sono le tre del pomeriggio e tu ti senti come se fossero le tre di notte. 
Un rottame, per intenderci. 
Il portafogli non c'è. L'autobus non lo prendi che con il culo che c'hai ti beccano prima che tu ci salga sopra. No portafogli no biglietto. E comunque la città è bloccata dai quei cose giganti dei lavoratori dell'ILVA.

Muovono i neri: Alfiere in A4.
La funicolare la prendi però, che la salita fino a casa è tanta e sì che c'hai il trolley a sto giro, ma c'hai anche lo zaino con il Mac la macchina fotografica ecc. 
Vuoi davvero trovare i controllori in funicolare? Ma che dici!
Be' almeno quella passa. Visto che tutto il resto è bloccato. 
Il manico non sembra sentirsi tanto bene, ma dopotutto anche tu non ti senti molto bene…

Muovono i bianchi: Alfiere in A4
Ovviamente i controllori sono lì. Ti aspettano al varco. Non puoi andare da nessuna parte. 
È così, dovevi aspettartelo. Esattamente come ti aspetti che inizino a piovere rane da un momento all'altro. O che ne so… cinghiali ubriachi con le zampe palmate al posto degli zoccoli.
Sì ecco. I cinghiali ubriachi effettivamente potrebbero iniziare a cadere dal cielo da un momento all'altro. Cosa aspettano?
E mentre con questi gioiosi pensieri apocalittici ti avvicina mesta ai controllori per raccontar loro la tua triste giornata, il manico della valigia si stacca e ti rimane in mano mentre lei cade al rallentatore e il tuo cuore si chiede perché, perché a te. Perché tutto concentrato in così poche ore. 
Insomma SCACCO.
Ecco perché guardi i controllori con gli occhi lucidi di una piccola fiammiferaia che però vorrebbe usare quei cerini per dare fuoco a quel che resta del mondo.
Li guardi ed effettivamente non è che ti viene da recitar lacrime, è proprio tutto naturale. 
Ti ci mancava solo la multa.
Ma essi sono umani. Forse capiscono la crisi. Ti vedono con le valigie, anzi con un zaino sulle spalle, il manico della valigia in una mano. Nell'altra la valigia, la borsa che contiene anche i famosi cinghiali di cui sopra ma non il tuo portafogli con dentro i soldi, i documenti, le carte, l'abbonamento, la tua fortuna e la tua sfortuna.

Muovono i neri: Regina in A4 - Cade l'alfiere dei bianchi. Si sventa lo scacco. 
Ti fanno passare. Ti lasciano andare.
È la prima volta che dei controllori ti dimostrano umanità. La prima. 
Arrivi a casa. 
Ti trascini per la fine della salita quel che rimane della tua valigia.
Arrivi a casa.
In realtà il portafogli lo trovi. Era esattamente dove avevi detto al tuo coinquilino di cercarlo. 
Aggiusti il manico della valigia con del nastro da elettricista. Ti fai un caffè (che non sei abbastanza agitata), torni in stazione. 

Muovono i bianchi: Re in A4, ti salta la Regina. Stacce.
Torni in stazione affrontando la coda. 
Il regionale è soppresso.
L'intercity non è garantito, puoi tipo sognartelo.
C'è solo uno di quei treni che costano abbastanza da farti piangere il cuore quando compri il biglietto.
C'è con il suo ritardo e il suo sovraffollamento ma c'è.
C'è il controllore che manco te lo controlla il biglietto, che magari li avresti anche risparmiati quei soldi. Ma vabbè. 
C'è che vorresti farti una doccia o dormire. O anche vabbè.
C'è che però sei partita. 
Potrebbero sempre iniziare a piovere cinghiali ubriachi che danzano con le rane prima che tu ti accorga che hai dato scacco al Re avversario.

(Le foto ce le metto dopo che in treno la connessione è quella che è)

mercoledì 31 ottobre 2012

Vento del Nord


Soffia Tramontana.
Vento di Nord che arriva dai monti.
Vento gelido che si porta dietro la burrasca, ma prima o poi, a furia di soffiare se la porta verso il mare.
Lontano dalle creste dei monti intorno alla città dove i venti cattivi addensano le nuvole e le lasciano lì per giorni.
Vento gelido che cambia il colore al mare, lo rende grigio come il ghiaccio, cambia le correnti, se ti butti in acqua in un attimo sei al largo.
Vento a favore per partire da queste parti.
Credo.
Se facessi vela, se mi mettessi davvero per mare chissà quante cazzate leggerei nelle righe che ho scritto prima.
O forse quanto crederei di esser diventata saggia nonostante io dal mio porto tenda ad allontanarmi per lo più via terra.

Questo post è rimasto nelle bozze per giorni, a prendersi il vento che urla fuori dalle finestre. Nel frattempo qualcuno aveva predetto Cassandra, la quale non ci ha investito davvero. Nel frattempo la temperatura è scesa di parecchi gradi. Nel frattempo i La Quiete hanno suonato a Genova dopo dieci anni, Il Trofeo MacGyver è stato un successo e la quarta edizione di If The Bomb Falls (detta appunto Evitare la Catastrofe) è finita ed è andata benissimo. Ma queste sono tutte cose belle di cui voglio parlare in un altro momento, o di cui forse non ho abbastanza parole per parlarne.

Nel frattempo questo vento è cambiato dieci volte facendo il giro della rosa dei venti per poi tornare ad agitare il mare.



E quindi passa il tempo, il vento di Tramontana torna portandosi dietro nuova pioggia, torna in un giorno in cui non ho qualcosa da festeggiare, ma affronterò la pioggia in diagonale per riempire un bicchiere da alzare al cielo alla salute di un bel ricordo. Alla salute di quel momento in cui un atto in genere riservato ai singoli divenne un atto collettivo, partecipato e meraviglioso. Due anni fa curavo una collana per NPE che si chiama Nuvole in Tempesta.
Adesso le nuvole in tempesta sono uscite dalle pagine dei libri e riempiono il cielo di Genova da giorni.

In questo istante il vento soffia così forte da far tremare i vetri, urla con quel rombo sordo in grado di colpirti in pieno al centro del plesso solare e far tremare le costole. Quell'urlo costante che è più spaventoso del silenzio che lo segue.
Fa cadere la pioggia in diagonale totalizzando la completezza dei rumori.

Questa casa è su un promontorio. Qui il vento soffia cattivo anche quando nel resto della città tace o è lieve.
Ora è così feroce da spaventarmi, da distrarmi. Da farmi venir voglia di registrare il fischio della cappa della cucina da cui entra in casa.



Ora basta.
La verità è che vorrei che tacesse tutto. Perché è come sentirmi dentro il mio specchio. Non attraverso di esso come Alice, o semplicemente riflessa.
Come in queste foto che ho scattato domenica, su una scogliera di venti metri a Pieve Ligure.
Erano le tre del pomeriggio e sembrava notte.
Erano le tre del pomeriggio e c'era burrasca.
Io il Marirami l'ho intravisto lì, dove c'è il riflesso sulla linea dell'orizzonte.
Su quello scoglio a picco sul mare, con quelle onde che per poco non mi hanno presa in pieno un paio di volte, ho cercando di buttare in mare la pesantezza, di dimenticarmi questo piccolo mondo di carte che va in pezzi, trascinato dal vento.
Ho trovato un equilibrio anche in mezzo alla burrasca. Non ho lasciato il timone e in mare non ci sono finita davvero.
L'ho amato e temuto come poche altre volte.


Sono dentro al mio specchio mentre soffia questo vento maledetto. Questo vento vento a favore per partire.
Domani spezzerò un viaggio per fermarmi a trovare un punto di equilibrio tra le depressioni delle onde e le loro creste bianche.
Domani è un buon giorno per mettersi di nuovo in viaggio.
Anche se domani cambia di nuovo, perché si sa, il vento del nord è abbastanza volubile.

venerdì 19 ottobre 2012

Primo Trofeo McGyver - L'ingegno a fumetti


Sotto l'alto patrocinio del pragmatico popolo genovese nasce finalmente un concorso a fumetti improntato alla concretezza e al materialismo. In controtendenza rispetto al dilagare di trame fantasy e novelle intimiste prende finalmente vita la PRIMA EDIZIONE DEL TROFEO MACGYVER - INGEGNO A FUMETTI, kermesse che promuove il lato ingegneristico della Nona Arte. 

Come uscirne vivi?
Sei il nostro eroe, o forse solo il tuo, o forse sei il beniamino di intere generazioni che pensavano di sopravvivere un po' meglio agli Ottanta. Ah no, aspetta, Novanta. Ah no, scusa, agli Anni Zero. Vabbè facciamo che insomma pensavano di sopravvivere un po' meglio.
Sei la loro veritàeluce™ e non puoi deluderli.
Il tuo santo protettore non è altri che MacGyver, colui che quando il panico bussa alla tua porta lo scaccia con un missile creato con una penna BIC e il rutto di un coccodrillo spaziale.
Come farai a sopravvivere e far sognare intere generazioni di diventare come te?
Raccontacelo a fumetti: noi ti forniremo la carta e le matite, tu mettici l'avventura!  

Scopri di più a questo link


giovedì 27 settembre 2012

Dell'uso sbagliato della parola "Libertà"

È tutto il giorno che ci penso, mentre faccio finta di non farlo. Ma alla fine è impossibile mettere la testa sotto la sabbia.
A quanto pare la condanna di Sallusti sembra aver mobilitato la parte bassa della coscienza di partiti, Presidente della Repubblica, presidente del Consiglio, Mary Poppins e anche il cane dei miei vicini.
Tutti. Ma proprio tutti.
Oh parliamo del diretto de Il Giornale, non di mio cuggino che fa il meccanico. E sembra che non sia normale che uno come Sallusti possa essere condannato a quattordici mesi di galera che probabilmente non sconterà nemmeno.
Sia chiaro. Io in galera, lo dico sempre, non ci voglio nemmeno i secondini, ma è davvero così strano che il direttore di un giornale possa essere condannato per diffamazione? Per averlo fatto, poi, in modo intenzionale?
Perché si urla alla libertà di opinione adesso? Perché?
Perché invece si reputa giusto e normale che ci sia chi sconterà (e sta già scontando) decine di anni di galera per aver rotto una vetrina, o per la compartecipazione psichica?
Ci si sta riempiendo la bocca (e si stanno colmando anche le pagine dei giornali) di parole che hanno a che fare con la libertà di opinione.
Si urla che Sallusti non può dire la sua di opinione.
Opinione? Qualcuno, per fortuna, ha analizzato i fatti e qui non si parla di reati di pensiero (che invece mandano in galera ben altre categorie di persone) ma di fatti.
Presi punto per punto.
Vi invito a leggere la nota di Robecchi che ho linkato.

Ora non si fa altro che parlare di crisi, di adeguarsi all'Europa (adeguarsi all'Europa, adeguarsi all'Europa adeguarsi all'Europa, adeguarsi all'Europa) e si fanno le cose all'italiana, che da qualche decennio a questa parte non vuol dire più sinonimo di qualità.
Lo si fa parlando di Sallusti come vittima della censura, della mancata libertà di stampa nel nostro Paese. E in questo caso va bene dire che bisogna adeguarsi all'Europa legislativamente (sì, lo ripeto, come viene ripetuto a noi ogni giorno, come se ci avessero piantato un martello pneumatico nel cervello), nel caso invece di una qualche vetrina, no, non bisogna fare quella roba lì che ho ripetuto, va bene il Codice Rocco.
Sinceramente mi viene in mente Tristan Tazara quando diceva che «Il buon senso ci dice che i nostri cervelli diventeranno morbidi cuscini, che il nostro antidogmatismo è estremista quanto un impiegato e che noi non siamo liberi ma vociferiamo di libertà».
A me in questo momento di sentir urlare alla libertà in un Paese dove non c'è libertà di dissentire, dove non c'è libertà della persona e dove il danno arrecato alle persone è meno grave di quello arrecato alle cose mi va venir da vomitare anche l'ossigeno che respiro.

Edit 27/09/12 - 13.15
Vi inviterei a leggere anche questa di opinione, uscita poco fa sulle pagine di Internazionale.

mercoledì 12 settembre 2012

Evitare la catastrofe - If the bomb falls vol. 4


If the bomb falls giunge alla sua quarta edizione.
Il festival delle autoproduzioni che si terrà al Laboratorio Sociale Buridda venerdì 26 e sabato 27 ottobre vuole essere il punto di incontro per tutte quelle esperienze indipendenti che animano e rendono vivo l'ambito culturale, artistico, musicale e artigianale.
Il venerdì dalle 19, il sabato dalle 17, ci saranno banchetti, mostre, musica, cibo e succulente sorprese.
Lo spazio non manca e noi saremo felici di riempirlo con le vostre storie di vita e di autoproduzione.

Inoltre abbiamo deciso di devolvere l'intero guadagno del festival a Supporto Legale (www.supportolegale.org), realtà che da anni ha seguito i processi del g8 2001 fino alla loro conclusione e che, ora più che mai, sostiene chi è stato condannato lo scorso luglio a pagare per tutte e tutti.
Questi sono i motivi del nostro invito: condividere le nostre storie politiche e creative di resistenza, e dare un forte segno di solidarietà.
Vi aspettiamo quindi venerdì 26 e sabato 27 ottobre 2012 al L.S. Buridda in via Bertani 1 a Genova.

La memoria e la solidarietà sono un ingranaggio collettivo, così come le autoproduzioni possono diventare una soluzione per evitare la catastrofe.





Info editoria e mostre: arrivederci@anche.no
Info distro musicali e tutto il resto: malevoci@insiberia.net

mercoledì 5 settembre 2012

Nessuno

Non sopporto far polemica.
Non sono nemmeno tanto brava a far polemica.
In vita mia mi sono sempre tenuta lontano da forum e flame vari perché ho sempre pensato, in modo un po' sbruffone se volete, che chi ha il tempo di scrivere tutti quei post ha davvero troppo poco da lavorare.
O troppe poche cose belle da raccontare.
O forse non è impegnato nel progetto fighissimo che vorrebbe saper fare.

Ancor meno sopporto i “piagnistei” da internet, quelli che suonano come un «Io sono così bravo ma non lavoro perché ci sono quelli meno bravi che mi rubano il lavoro perché sono raccomandati», oppure come un «Meglio andarsene dall'Italia! Qui non si vive!» aggiungendo poi un «Trenitalia è una merda».
Le grandi liste di quelli che potremmo chiamare i “Una volta qui era tutta campagna 2.0”.
I nuovi luoghi comuni.
I nuovi mugugni.

Ecco. Sono tutte cose vere ma incredibilmente inutili. Sono parole che spesso, secondo me, servono solo a sprecare innumerevoli bit della rete.
Un po' come questo post.
Sarà che sono cresciuta in ambiti dove mi è stato insegnato quanto il confronto sia importante in merito a fatti e progettualità collettive e che quando ci si perde in chiacchiere non si conclude molto. Si uccidono i progetti e non si va avanti.

Fermi. Con questo non sto dicendo che non ci deve essere un ambito di discussione e di confronto costante, dico solo che prima di discutere o di far polemica o di far piagnistei pubblici ci si deve chiedere se si hanno gli strumenti per farlo, se si rimane nel merito, se si sanno le cose di cui si parla.

Ce l'ho fatta. Sono arrivata al punto:
- avere gli strumenti
- rimanere nel merito
- sapere le cose.

Mi sono chiesta se rispondevo a questi tre requisiti prima di scrivere. Me lo sono chiesto per tutto il tempo in cui questo blog è rimasto in silenzio.
Non ne sono sicura, ma credo di poterlo fare.
E perdonatemi se sembra che io me la stia tirando.


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Quando mi chiedono che lavoro faccio mi imbarazzo sempre.
Tendo a rispondere “Sono un aiuto cuoco” anche se quel lavoro non lo faccio per più di due mesi l'anno.
Quando mi chiamano fotografa mi imbarazzo per rispetto a chi fa quel lavoro meglio di me.
Quando mi dicono che sono un'illustratrice o una fumettista mi imbarazzo per tutte quelle persone che fanno davvero questo lavoro.
Talmente tanto che ho i biglietti da visita nelle bozze da sei mesi e non so che scriverci sotto.

Faccio delle foto. E mi pagano per farle. Non sempre, non cifre altissime, ma abbastanza da pagare l'affitto il più spesso possibile.
Di illustrazioni professionali ne faccio non più di tre all'anno, e i fumetti... be' sono lì ad arredare il fondo del cassetto dove li ho chiusi, in attesa di convincermi che qualcuno potrebbe aver voglia di leggere le storie che ho da raccontare.
In cucina lavoro saltuariamente e sono spesso quell'elemento che puoi mandare allo sbaraglio perché tendenzialmente non ti farà fare una figura di merda, anche se tra me e uno Chef ci sono anni luce di distanza.

Bene. Quello che mi rimane sulla punta delle dita da mesi è questo. Ha a che fare con il bisogno costante di attenzione delle persone. Con coloro che si chiamano fotografi, che si presentano dicendo che sono illustratori, fumettisti, scrittori, artisti, musicisti, e poi fanno l'impiegato nello studio di papà, perché sai, quello è un lavoro vero, il resto è passione.
Non mi ha mai fatto tanta nausea come in questo periodo la parola passione. Prima almeno avevano la decenza di chiamarlo hobby, che faceva schifo uguale, ma almeno non dava a intendere una volontà professionale.
E sono gli stessi che devi dribblare ai concerti, quando sei un “fotografo ufficiale” e sai che tu l'obiettivo devi metterlo a rischio per portare a casa il lavoro (vi piace vincere facile a pensare che ci son sempre le transenne eh?). Sono quelli che il giorno dopo ti chiedono l'amicizia su facebook e poi ti invitano a diventare fan della loro pagina michiamocosìphotography e che mettono il copyright su tutte le loro foto come se fossero professionisti, ma poi nelle loro informazioni, mettono curriculum lunghissimi che partono dalle elementari e finisco all'oggi dicendo che non sono fotografi ma solo persone che hanno tanta passione (again).

Unsane @ POP festival - Villa Bombrini - Genova 28/06/2012

FBYC @ Init Club - Roma - 21/06/2012

Sono quelli che fanno le mostre ma non hanno mai aperto un tutorial e non hanno idea di come funzionino i livelli di photoshop, che hanno la mail michiamocosìph@sonotroppounfotografo.ma, sono quelli che vanno a fare i concerti GRATIS perché a loro piace la musica dal vivo e allora così non pagano il biglietto.
Oh, parlo di fotografi ma con illustratori, coloristi, fumettisti, scrittori ecc è uguale eh.
Uso solo un esempio, uno lampante, un po' più alla portata di tutti.
Perché secondo me è la sintesi di una situazione complessa che rispecchia un'epoca come la nostra. Siamo sommersi di immagini  da tutti i lati.
Talmente sommersi che non riusciamo più a dare un valore al lavoro della gente, perché non serve che tu lavori davvero, mi basta che tu ogni tanto prenda la macchina fotografica e mi faccia qualche bella foto oppure io se fossi al tuo posto pagherei per fare le foto a questo concerto, e tu mi chiedi anche un cachet!*
Parliamoci chiaro: io non vado dal barista a dirgli «Io pagherei per offrire un caffè a una rossa figa come me» oppure «Non serve che lavori, basta che tu mi faccia un caffè».
E non faccio nemmeno parte di quell'esercito di persone che non fa le cose, ma non vede l'ora di avere qualche categoria nuova di persone su cui sparare a zero.
Oh perché sparare sulla Croce Rossa in tempo di pace non è più tanto divertente.
Allora inventiamo nuove gruppi di gente su cui sparare a zero!
Che ci frega se noi non ci proviamo nemmeno a farle cose. Basta avere una reflex per sentirsi un fotografo, pure le scimmie saprebbero fotografare, e poi con Instagram tutti fanno delle belle foto! Basta applicarci il filtro e via.
Non volevo dirvelo, ma se una foto fa schifo ai cani, fa schifo ai cani anche con Instagram, che per me rimane comunque un bel giocattolo.
Per capirci: io non critico a priori chi mette la sua firma sulle foto. Nel web è facile prendere una foto e farla girare. È anche giusto non metterle in copyright, perché dai, a me quella © mi fa proprio schifo. Sul web gli aspetti più chiusi del copyright non sono solo obsoleti ma anche completamente privi di senso. Oddio, anche fuori dal web ho sempre avuto i miei problemi con la dicitura “tutti i diritti riservati” infatti ho sempre lasciato che che le cose girino, tanto lo fanno lo stesso c cerchiata o meno. Preferisco che qualcuno, se le apprezza, abbia il modo di trovare anche le altre cose che faccio.
Mettere il mio nome sulle foto per il web è semplicemente suggerire alle persone cosa cercare su google.
E sinceramente rilascio ogni cosa che faccio in Creative Commons, poi se vuoi usarla per scopi commerciali magari mi paghi, sai com'è, mi rendo conto che mi piace fare questo lavoro, però se piace anche a te e ci vuoi fare dei soldi secondo me se me ne dai un po' non sbagli, così sempre per dire, eh.

Queste sono le cose.
Il lavoro è una cosa importante.
Le competenze per farlo, anche.
E la parola rispetto è talmente abusata che nemmeno Humpty Dumpty riuscirebbe a ridarle significato.

Scusatemi, quando non lavoro mi fa anche piacere pagare il biglietto e godermi un concerto (senza macchina fotografica) e posso pure esser contenta di spendere delle monete per un caffè veramente buono al bar.
Adoro guardare il lavoro degli altri e farmi coinvolgere ed emozionare se mi piace, e mi sento in diritto di dire che eventualmente non mi piace.
Sento il bisogno, imprescindibile, di valorizzare le cose belle e di non appiattire la mia linea critica.
Sento il bisogno di non diventare snob e di avere ancora curiosità per le cose e di non scrivere curriculum lunghissimi o raccontarmi la favola che sono troppo una figa.
Io sono Nessuno.
E sto bene così.

Questa serve solo per dirvi che ci metto la faccia anche quando scrivo.
Ah sì. Ovviamente è fatta con Instagram.

*tutte storie vere NDA

sabato 18 agosto 2012

Fuori

Al tramonto esci in terrazza, quella dove in genere stendi i tuoi vestiti neri, ma soprattutto dove ti appoggi alla ringhiera guardando il mare.
Cerchi la linea dell'orizzonte per distrarti.
Ma oggi non c'è.
Non c'è il Golfo Ligure, non c'è Cape d'Atibes lì in fondo, ma non c'è nemmeno la linea di orizzonte. È tutto impastato dal caldo umido, dalla macaia di una giornata infernale.
Tra l'aria grigia e pesante filtra il rosa del cielo riflesso nel mare e, in quell'acqua calma e quasi solida, c'è lei.


Sono giorni che è lì. Ancorata fuori dal porto. Fuori dalla Diga Foranea.
Un cargo senza containers.
Che aspetta.

Spegni la sigaretta. È inutile che tu provi a distrarti.

Oggi non hai storie appese sulla linea dell'orizzonte.
Non vedi le navi sparire alla vista, pensando ai viaggi, ai posti che stanno oltre la fine dello sguardo. Non ci sono i sogni di mettersi di nuovo per strada, o finalmente per mare, non puoi fingere che prima o poi partirai che mollerai gli ormeggi quando sentirai il vento a favore.
Oggi c'è una nave da cargo vuota, ancorata fuori dal questo grande porto, che continui a vedere da giorni senza notarla davvero, finché ti rendi conto che ti rispecchia esattamente come sta facendo il cielo nel mare in quel momento.

domenica 15 luglio 2012

Il vicino

Il mio vicino stende della roba colorata.
Quell'altro vicino stende i mutandoni della nonna.
Forse è la nonna.
Poi c'è il vicino con la bandiera dell'Italia. Ma quella dei mondiali del novanta, che qui siamo a Genova e bisogna risparmiare.
Per loro il vicino sono io.


Quella cosa strana che si fuma le sigarette sul terrazzo pendente guardando il mare.


Anche il mio vicino si fuma le sigarette in terrazza. E tra i vestiti neri appesi mi osserva mentre scrivo su un computer bianco. Vestita di nero, ovviamente.


Scusami caro vicino.
Te lo devo dire.
Nonostante quei vestiti neri la tua vicina non è una black bloc.
Ma tu puoi pensare che lo sia.
La tua vicina non ha mai tirato una pietra.
Anche se ti vuoi convincere che quella bandana lì non l'ha usata solo per mettersela in testa e trattenere il sudore in viaggio.


Ciao vicino, ora ti racconto una storia.
Non è colma di buoni sentimenti. Quelli forse non esistono. 
Ma sento di dovertela raccontare.
Sennò esplodo.
O forse implodo, che è peggio.

Questa è la premessa.
Qui troverai probabilmente molto sangue, lacrime e merda. Tanta, tanta merda.
Per cui sei autorizzato a non andare avanti. A non ascoltarmi ulteriormente.
Perché in quello che scriverò non c'è niente di brillante.
Non ci sono analisi profonde.
Non c'è la verità né la luce né la saggezza.
Ci sono solo un secchio di emozioni che mi stanno spaccando in due il cranio e il cuore, che mi annodano la gola e mi stringono lo stomaco.
Mi dispiace. Certe cose continuo a prenderle sul personale.
Anche dopo undici anni.
Perché ci sono storie che abbiamo vissuto in tanti, che hanno un legame collettivo, ma che hanno - in un modo o nell'altro - cambiato le nostre vite personali.
Per cui ti racconto una storia.
Una storia che non ha un lieto fine. Che non è finita, perché purtroppo non può finire.


Undici anni fa avevo sedici anni, ed ero già una testa di cazzo da competizione.
Undici anni fa vestivo di rosso e arancione, avevo dei capelli lunghissimi e incolti e l'ingenuità di chi già combatte per qualcosa ma non ha ancora gli strumenti e l'esperienza per rendersi conto di quello che fa, o che dice. L'unica cosa che capivo è che c'erano delle regole nel mondo sbagliate.
V for Vendetta non l'avevo ancora letto, ma nella mia testa di adolescente quel monologo davanti alla Giustizia l'avevo già fatto qualche volta, non solo con la Giustizia degli uomini, ma anche con quella divina, che mi aveva già preso a morsi non poco.
Ed ero piccola.
Cristo se ero piccola!
E le cose accadevano veloci e io stavo lì in mezzo a dover imparare gli strumenti per comprenderle troppo in fretta.
Perché è andata così. Le ho imparate troppo in fretta, come quando si studia un libro la notte prima di un esame.
Sicuramente le cose non le apprendi del tutto, soprattutto se come me non sei una persona particolarmente brillante.
Undici anni fa è l'inizio di Genova. L'inizio di una primavera inconsapevole.
San Giorgio e il drago. No aspetta. San Giorgio È il drago. 
Genova è stata il ventre della bestia.
Ci ha uniti e divisi in modo irreparabile.

Sto divagando.
Scusami.
Non è questa la storia che volevi sapere.

I miei vestiti neri, appesi alla finestra. Scherzando con un'amica una volta abbiamo detto che i nostri vestiti neri rappresentano il lutto dei sogni.
Neanche sforzandoci saremmo riuscite a trovare qualcosa di più emo da legare alla politica.
O quantomeno alla realtà. Perché sono due cose che vanno a braccetto.


Un amico in carcere non è mai una bella cosa.
A chi come noi è rimasto per anni su quella soglia di lotte al limite tra legale e illegale purtroppo è capitato più di qualche volta di urlare il nome di qualche amico prima delle parole LIBERO - LIBERI TUTTI.


No basta. Non divago più.
Non devo raccontarti la storia della MIA vita in poche righe.
Non lo voglio nemmeno fare.


Vorrei trovare solo le parole per raccontarti perché sono sotto shock.
Perché Alberto che entra in carcere oggi è una cosa che stringe il cuore.
Ok sì, ho fatto il nome di Alberto, forse perché è quello che conosco meglio, quello per cui ogni anno in cui sono stata al Crack ho fatto un disegno per Scarceranda alle tre di notte, non proprio lucida (e dopo che lui mi inseguiva con fogli e pennarelli dalle quattro del pomeriggio).
Quelle condanne sono troppo per me, che mi sono tatuata addosso quella frase per ricordarmi di accettare le cose che non posso cambiare, cambiare quelle che posso e avere la saggezza di comprendere sempre la differenza.
Ma adesso, a parte abbassare le braccia davanti alla rabbia all'impotenza, davanti al corpo che urla silenziosamente da dentro, che posso fare?
Sono qui che scrivo di notte, dopo due giorni che vomito parole a caso senza capire come mi sento davvero.
Dopo che ieri ho pensato che distrarmi dalla sentenza con un paio di whisky fosse una cosa giusta, salvo poi rendermi conto di provare schifo per ogni cosa che avessi attorno.
Dopo che stamattina ho chiesto a Mina e Laura di nascondere il giornale perché non volevo leggerlo, ma era lì sul tavolo, aperto su quella pagina che da ieri sera non volevo leggere, sotto alle tazzine di caffè già svuotate più volte, perché il sonno ieri è arrivato per il tempo necessario a smaltire quell'alcol che avevo in corpo (ovvero nell'ordine delle tre-quattro ore).
Io quando ho letto i numeri su quella pagina sono stata MALE. 
Un male cane.
Non mi sono messa a piangere perché volevo fingere di essere un po' più forte di quanto io non sia realmente, ma avevo la pelle d'oca.
Sono più di 24 ore che ho la pelle d'oca, perché questo pensiero non è che mi sta sfiorando, m'investe. Mi entra dentro come un treno in corsa (e lascia le mie budella spiaccicate sui binari).


Perché è l'apoteosi dell'ingiustizia. Non è vendetta capiscimi, io non ci credo alla vendetta. Quella è un giochetto dei bambini, la ripicca. O dei fidanzatini scemi.
Qui c'è un avvertimento.
Ce lo stanno dicendo chiaro e tondo: abbassate le braccia. Arrendetevi. E non uscite dai limiti. E smettetela di fare i paragoni con le pene date alle Forze dell'Ordine.
Due pesi e due misure.
Ve l'abbiamo già detto.
One for the money, two for the show.
Si crea la giurisprudenza per trasformare un reato fascista in un reato democratico. Per il concetto strano di democrazia che si ha in questo paese.


E io, che altro posso fare a parte non appendere i pantoni al chiodo e disegnare qualcosa che sia bello come una prigione che brucia?
Che altro posso fare a parte fumare un milione di sigarette, scrivere a letto perché spero che il sonno mi colga prima di prendere invio e mi dia quiete?
Niente.
E domani non andrà meglio.
Anche se io sono libera.
Non passerà davvero.
Perché io quelle vie le ripercorro ogni giorno, da quando nove anni fa sono venuta a vivere qui in pianta (più o meno) stabile.
Ogni volta che il treno passa da Brignole e vedo via Tolemaide ci penso, anche solo per una frazione di secondo, è un riflesso incondizionato. Ogni volta che passo da Piazza Alimonda per andare verso Corso Europa guardo se la targa di Carlo è ancora al suo posto, con i fiori secchi appoggiati sopra.
Poi tiro dritto, e vado verso il mare.
Perché è sul mare che finiscono le vie a Genova.


Se devastazione e saccheggio è un reato imputabile a chi, con il sostegno di una massa, mette in pericolo l'ordine pubblico, perché non sono processati per lo stesso motivo i carabinieri che fecero partire la carica di via Tolemaide?
Per quale motivo viene legittimata la morte di un ragazzo di 23 anni, viene legittimata una mattanza come quella della Diaz, vengono alleviate le pene per le torture di Bolzaneto e ci sono al momento 5 persone con decine di anni di carcere da scontare?
DECINE DI ANNI.
Decine.
No tre anni e otto mesi.
No una tirata d'orecchie.
Non è la Diaz la condanna simbolica. Nossignore. Il vero punto del vento che cambia è questo. Questa sentenza qui. Questa galera che arriva dopo uno strazio di dieci anni, dopo due anni di misure cautelari.
Prima di quelle lacrime e di quelle urla che si ostinano a non uscire dal mio corpo.


Io non dimenticherò mai il giorno della sentenza di primo grado, quando sui gradini del tribunale con Davide ci siamo abbracciati e siamo scoppiati a piangere.
Non dimenticherò mai il giorno della sentenza d'appello, quando la notizia mi ha raggiunto mentre ero nel magico mondo di Cinecittà a girare un corto e dovevo far finta di niente, perché lì dentro questo tipo di storie erano bandite.
E non dimenticherò mai ieri, quando l'ansa mi ha sbattuto in faccia la sentenza e io mi sono accasciata sul divano, iniziando a irrigidirmi, per assorbire il colpo.
Perché la sproporzione è così grande che non puoi non vederla, non puoi far fatica a capire che è reale.
Fino a che non arriva quel messaggio, che ti dice che i tuoi compagni stanno entrando in carcere in quel momento.
Che ci sono un sacco di persone fuori a salutarli.
E c'è quel cazzo di cancello che si chiude.


Come ti dicevo questa è una storia che non è finita. Perché quei cancelli chiusi non permettono che finisca.

mercoledì 27 giugno 2012

Sette modi di prendere il volo

Dalla finestra di casa - 20/06/2012

Mercoledì. Hai dormito tre ore. La sveglia non è delle migliori. 
Non c'è più il posto in furgone e tu volevi davvero partire questa volta.
O forse no.
Macaia.
Cose complicate.
E sì che lo Scirocco dovrebbe esser passato.
Stanchezza nelle ossa, nei muscoli nei nervi.
Occhi gonfi e segnati.

Il primo modo di prendere il volo.

Bisogno di andare al mare.
Corso Europa e Aurelia son quasi deserte. Va bene.
La moto corre, Giò accelera. Non vedi il quadrante ma dalle vibrazioni sotto il sedere sai che sta tirando.
Grazie.
Avevo bisogno dell'adrenalina per prendere il volo nonostante la mia pesantezza.

Ottima idea. Gli scogli sono deserti. L'acqua è limpida e calmissima. Sul fondo si vede una grandissima medusa bianca.
La guardi finché non prende il largo.
Va bene. Prendiamo fiato.

Il secondo modo di prendere il volo.

Il primo tuffo si porta via il primo strato di pelle morta, di stanchezza, di tensione, incertezze.
Risalire dal tuffo è mettersi a volare.
E poi immergersi.
Apnea.
Pace.
Equilibrio.

foto brutta del cellulare

Giovedì.
Hai dormito comunque meno di cinque ore e devi partire in treno.
Roma.
Caldo infernale.
Temperature ostili alla vita.
Annettta. Dirle di tornare a casa. Di lasciare Roma.
Ti manca.
Resistere.
Init.
Pinguini che fanno un check precisissimo.
FBYC che arrivano tardissimo e il check decidono di non farlo.
Pinguini e FBYC che spaccano. Tutti e due.
Un milione di gradi sul palco.
Decine di bottigliette d'acqua.
Qualcuno che perde un po' di sangue.
Tutti che perdono litri di sudore.

Gazebo Penguins @ Init Club - Roma 21/06/2012

FBYC @ Init Club  - Roma 21/06/2012

Il terzo modo di prendere il volo.

Il momento in cui appoggi la macchina fotografica e timidamente attraversi il palco.
Guardi negli occhi Andrea: "Prendimi".
Sulla gente, lanciandoti di schiena, fidandoti di loro.
Sperando di non aprirti anche tu la testa come ha fatto Jacopo mezz'ora fa.
Si muore di caldo e stanno per farti cadere male.
Jacopo ti recupera per le braccia, ti risolleva sul palco,
Via, dietro all'ampli ridendo, sorridendo, un inchino.
Strizzare le magliette per il sudore come se foste caduti in piscina.
Una piscina. Magari.

In motorino fino a San Lorenzo e il giro della staffa che dura finché c'è l'alba.
Quella mail che aspetti, che leggi prima di dormire, che ti prende a pugni lo stomaco. Perché il contenuto non è quello che speravi.

Il quarto modo per prendere il volo.

Ma questa volta verso il basso, verso tre ore di sonno ubriaco e un po' triste.
Ma è pur sempre un volo.

Venerdì. Arrivare a Napoli.
Difficile.
Programmi che saltano.
Treni che non ci sono.
Pranzo saltato.
Aspettare più di mezz'ora agli imbarchi di Ciampino. Perché è lì che ti verranno a recuperare con il furgone.

Il quinto modo di prendere il volo.

Con la testa.
Immaginarti in viaggio, in viaggio per davvero, non come una pallina del flipper.

FBYC @ Mamamu - Napoli 22/06/2012

Napoli.
Il parcheggiatore abusivo che non vi fa mollare il furgone.
Il locale piccolo come il salotto di casa.
Daniele con la sua flemma delicata.
Camminargli accanto e accorgersi di andare al triplo della velocità.
Alino che affronta lo sciopero per dire "Ciao".
Uno spritz a Napoli fa sempre ridere.
E questo locale troppo piccolo per i FBYC.
Moriremo tutti.
Non ci si può stare qui dentro.
Le foto solo per metà concerto. E poche.
Di nuovo volare sulla gente, tirata su dai ragazzi. Immortalata.

Foto di Lucio Carbonelli (buttare via la reputazione #1)
Foto di Lucio Carbonelli (buttare via la reputazione #2)

Va bene. Sorridi.
Sei di nuovo fradicia di sudore.
La barista che non vuole saperne di darti solo acqua.
Jacopo che ti nasconde i bicchieri.

Sabato.
Prendere il treno all'ultimo minuto utile, salutando al volo. Corriamo.
Un telefono scarico.
Una mela.
Di nuovo tre o quattro ore di sonno sul groppone.
Tempesta.
Caldo.
Troppa roba che suona in levare.
Però ci sono delle cose belle.
Tipo gli Uochi Toki.
Napo.
L'hai ritrovato.
Figata.

Foto per Pressappoco

A casa, non tanto tardi ma diversamente presto.
Addormentarti perché ti spegni, come quando si scaricano le batterie del cellulare.

Domenica. Potevi dormire ma il tuo cervello non ha voluto davvero che tu lo facessi.
Una lettera sul tavolo che finisce diretta nella scatola disordinata delle cose belle.
Una doccia fredda.
Perché vorresti prendere il volo in quel momento ma non puoi.
Una doccia fredda che si porta via postumi e stanchezza, e poi una doccia calda per convincere il tuo corpo alla vita.
Mauro e Meme che tornano.
Il pranzo pronto sul tavolo per strappar loro un sorriso. 
Due ore di autismo accanto a Mauro, di uscire non se ne parla.
Troppo caldo.
Fatica.

Di nuovo Tempesta.

Il sesto modo di prendere il volo.

Seduta sulla cassa arriva Mauro, salti dalla transenna e gli finisci dritta in braccio.
Va bene.
Che bello.

Questa volta sei tu che sei andata a trovare Kole.
Dovresti farti perdonare una certa figuraccia.
Ma non lo fai proprio benissimo.

Max che spunta dal cappello.
Tornare a casa alle sei e mezza.
Molto presto se l'orario lo guardi dall'altra parte.
Addormentarti di peso.
Dormire poco.
Il caffè lascialo fare a Mauro che tu con la sua caffettiera ci litighi.
Il treno, partire.

Telefonata fiume. Fatica a parlare.
I binari che scorrono dietro al treno.
Il mare che gli scorre accanto.
Stanchezza estrema.
I tetti grigi che arrivano al tramonto.
Sono a casa.
Vienimi a prendere e portami al mare a morire subito.
O a volare un po', di notte.

Il settimo modo di prendere il volo.
Tornare a casa al tramonto.

Genova Brignole 25/06/2012

mercoledì 20 giugno 2012

Marirami

Quest'anno non disegnerò il manifesto della Tattoo Convention di Genova come ho fatto gli anni precedenti.
In ogni caso è capitato che un amico mi chiedesse di disegnargli un albero. Ci ho pensato a lungo su quale fosse l'albero migliore per lui tra i tanti che ho disegnato ultimamente. Alla fine ho deciso di regalargli un Marirami.


Il Marirami è un albero leggendario e molto raro che viene chiamato anche albero delle maree.
Trovarlo non è facile, bisogna affrontare mari agitati, muri d'acqua e vento.
Cresce ne cuore delle tempeste e ha rami di vento e chiome di onde lunghe.

Predilige il vento freddo e secco di nord-ovest, infatti, se ci si trova vicino al nucleo della tormenta, lo si riesce a scorgere tra le onde lunghe delle mareggiate di Maestrale.
Quando la tempesta passa, anche lui svanisce, come se niente fosse, ma, se l'avete visto almeno una volta, non potete dimenticarlo.
Io l'ho visto, anche se mi sento un po' come Antoine de Saint-Euxpéry quando provò a ritrarre il Piccolo Principe e le sue mani non riuscirono a rendergli onore.

Derive, immagini, parole al vento.
E un albero delle maree, che cresce nel cuore della tempesta, come uno stato d'animo.

Dopo la grande mareggiata - Genova, dicembre 2011.

giovedì 14 giugno 2012

Le cose belle

Lo Scirocco non è un buon vento. Porta cattive notizie, stanchezza, mareggiate e rende pazzi. 
Quando soffia Scirocco non si scende in mare, le nuvole non si diradano e i fiumi non defluiscono.

La settimana scorsa ha soffiato Scirocco e per me è stata la settimana delle cattive notizie.
La settimana delle cose che fanno male, dove il dolore finalmente si manifesta dopo che è rimasto una lunga linea costante a cui sei abituata.
Esplode.
E fa un male cane. 
Fa urlare di rabbia la notte. Ti sveglia, ti smonta, ti annega.

Poi è un attimo. 
E finisce.
È lui ad affogare questa volta. In quella mareggiata, Dove rimani con i piedi a mollo con Leo per mezz'ora a pensare che avresti voglia di lanciarti comunque tra le onde. Ma non lo fai. Rimani con le braccia incrociate dietro la schiena, la schiuma bianca che ti schiaffeggia e un sorriso. Il primo. Quello che ti fa ricominciare, quello che ti fa capire qual è il potere del mare su di te. 

Sori - 10/06/2012

Lunedì, Milano. Magnolia. Hai ricominciato a star bene. Ma non del tutto. 
Ma c'è Marta.
Che non la vedi da quando è partita per i Paesi Baschi. C'è Marta a ricordarti un po' chi sei e da dove vieni (e che forse non le sbagli propio tutte). 


C'è Kole. Che ti ha conosciuto da poco ma che in realtà hai incontrato mille volte. Che abbandoni, giustamente, nelle mani di Marta.


C'è Gianluca. Che è una delle persone più importanti dell'anno. Di cui ho un sacco di foto che gli ho rubato in giro ma che non pubblico perché lo conosco e so che gli dà fastidio. 
Ma è colui che mi porta in giro con i suoi gruppi da sette mesi a questa parte, con sulle spalle la macchina fotografica e il computer, e nella saccoccia gli incontri. E che io non ringrazio mai abbastanza. 
Va bene.
Funziona.

Il giorno dopo c'è il pranzo che aspetti da qualche mese. 
Dove ci sono loro. E la loro sala riunioni.
Loro che sono mesi che senti e incontri in situazioni incasinatissime. Da Lucca al Salone del Libro di Torino, da qualche concerto in giro, a quell'attimo in cui quando passi da Milano vuoi trovare per il caffè.
C'è questo pranzo che è il momento in cui le cose belle riprendono tutte forma. 
E cambia il flusso.

 (Bao al Salone Internazionale del Libro di Torino)
(Bao al Salone Internazionale del Libro di Torino)

I ragazzi di BAO. Quelli che ti regalano le storie belle. Quelli che fanno in modo che quando soffia Scirocco tu abbia sempre qualche appiglio. Quelli che fanno delle cose belle. Perché io ho bisogno di storie che mi incantino come ho bisogno dell'ossigeno e loro riescono sempre a farmele avere tra le mani. 
E tu li guardi, lo sai che sei la loro amica disordinata e rumorosa, che con la loro precisione non hai molto a che fare, ma ti vogliono bene (e ancora non capisci molto bene il perché, ma al contrario hai perfettamente chiari i mille motivi per cui li ami, per cui ti senti di dire che non è mai troppo tardi per gli incontri belli). 
Le altre persone importanti dell'ultimo anno. Tra le più importanti di sicuro. Anche se a volte ti senti come un tossico dipendente quando si innamora del suo pusher. Ma questo è un dettaglio trascurabile.
C'è quel momento alla fine del pranzo dove hai tenuto banco (dove hai spaventato i loro stagisti, dove non ti sembra vero di esser per due ore seduta nello stesso posto con loro senza che arrivino 57 impegni al secondo) c'è quel momento a fine pranzo, dicevo, dove ti fumi una sigaretta con Caterina sul balcone e per la prima volta le dici che no, non va tutto bene, lei ti sorride, ti guarda e ti dice che hai bisogno di una storia che ti emozioni.


Esattamente come hanno fatto tante volte Leonardo o Michele (di cui con profondo rammarico non ho nemmeno una foto), che mi hanno regalato le mie storie preferite. 

Ecco, è questo che fanno i Bao: mi regalano storie che funzionano come medicine ad ampio spettro per sopravvivere, per sorridere, per non farmi investire dalla tempesta.
E io sono lì che mi chiedo come e quando arriverà il giorno in cui le potrò ricambiare. 

E un pomeriggio con TIto, ospite nel suo studio pieno di persone che fanno cose bellissime. Un pomeriggio a lavorare faccia a faccia, due ore e mezza di concentrazione e silenzio, dove non mi faccio comunque scappare l'occasione per ritrarlo.
Credo che siano i ritratti più belli che ho fatto fin'ora. 



Poi c'è l'emozione. Quella che ti fa capire che questa volta Milano la stai amando per molto più di un giorno solo.
Quando Bianca torna da Genova a Milano in tempo per accaparrarsi la tua valigia. 
Ci sono un fiume di cose da dire concentrate in due ore.
C'è la mattina dopo in cui, a furia di stare in giro, ti svegli e il tuo corpo di dice "Sorpresa! Non sai assolutamente dove sei e no, quello che vedi fuori dalla finestra non ti aiuta a capire niente". Un po' come John Doe all'inizio di ogni volume dopo che è finito nella prigione degli universi narrativi.
Tornare da Bianca con la spesa. Il pranzo in terrazzo. Con quella vista che ti fa sembrare bella anche Milano.


Bene. La valigia devi rimettertela in spalla. Una notte a Genova, poi Torino, poi di nuovo a casa per qualche giorno, ancora non sai quanti giorni. 
C'è l'ultima lezione dell'anno in cui saluti i tuoi allievi di sceneggiatura, non senza emozione. 
C'è questa foto che ti ha fatto Bianca che dice più di ogni altra cosa, più di tutte le parole che hai vomitato qui, più di tutte le foto che hai fatto. Perché in questa foto hai il sorriso delle cose belle.

Foto di Bianca Weiss Tabaton

sabato 9 giugno 2012

La sfiga mi rincorre con la motocicletta...

... e io ovviamente sto correndo scalza su una via di ghiaino e vetri rotti.

Nel lontano dicembre 2009, vivevo a Roma, ospite a casa di un amico in un posto dimenticato da Dio e dagli Uomini sulla Cassia. Risalito agli albori della cronaca pochi mesi prima per l'avvincente storia di Marrazzo.
Era un periodo come questo, in cui le cose girano un po' a fatti loro e per quanto tu cerchi di essere ottimista, l'ottimismo ti deride e si suicida davanti ai tuoi occhi ingoiando forti dosi di veleno.
Nell'ultima settimana credo che non sia passato un giorno intero senza che ci sia stata una piccola apocalisse nella mia quotidianità: gastrite acuta (roba che se non la prendevo in tempo mi acchiappavo una nuova ulcera), ascesso del dente del giudizio, pessime notizie, processi alla forma e alle intenzioni, solitudini, due di picche.
Tutta roba su cui provo a riderci sopra mentre la mia ironia decide di seguire l'esempio dell'ottimismo e di spararsi un colpo in bocca. Sempre davanti ai tuoi occhi, of course.
Allora succede che poi pure Afrodite (il mio amato MacBook) a un certo punto non vuole accendersi più. Lo fa dopo un forte numero di bestemmie e tre tentativi di avvio. Un po' come Gesù Cristo risorse dopo tre giorni.
Succede che su twitter, la mia amica (immaginaria) Nina Sever mi ricorda questa cosa del 2009. Di me a cavalcioni su quel cancello. Succede che recupero il post. Succede che ve lo faccio leggere. Perché mi sembra una bella metafora del mio stato d'animo di questo momento. Mi sento su quel cancello, in quel limbo. Ancora adesso. Nei secoli dei secoli.


Roma, 2 dicembre 2009.

È una mattina di quelle che iniziano con la sveglia che suona ripetutamente per delle mezz’ore, ti rigiri nel letto, ti copri la testa con il cuscino, ti ricacci sotto le coperte, hai freddo e il sonno è arrivato da appena due ore. Se va bene.
Dopo un lungo tempo passato a cercare di fuggire la realtà, prendi il telefono in mano e scorgi con orrore che è già parecchio tardi.
Ti alzi di scatto, Ti vesti con le prime cose che afferri, Il beautycase lo infili a casaccio nella borsa insieme alla spazzola (dopotutto sono un’ora e tre quarti di mezzi per arrivare in ufficio, puoi tranquillamente pettinarti e truccarti tra autobus vari e metro).

Esci dalla porta. Chiami l’ascensore. Rientri un attimo per controllare di non esserti dimenticata nulla. Ok. C’è tutto. Chiudi la porta, metti le mani in tasca del cappotto per prendere le chiavi.
Ah già. Le chiavi.
Sono sul tavolo, ovviamente.

Ok, non è il caso di invocare i demoni solo per le chiavi, il coinquilino tornerà prima di te e qualcuno che ti apre stasera ci sarà sicuramente.

Piano terra, Apri la porta a vetri, Ti si chiude alle spalle.
Ottimo. Il tasto per aprire il cancello è solo DENTRO la porta, quindi sei decisamente bloccata in quel limbo a forma di corridoio che separa la porta dal cancello.

Provi a fermare i passanti (che in questo posto sperduto sono decisamente pochi) chiedi loro se cortesemente possono suonare tutti i campanelli dei vicini perché trovino qualcuno che ti apra.

Beata diffidenza. Non uno che apra quel maledetto cancello. Se arrivo in ritardo al lavoro con questa scusa mi bruciano a me e a tre quarti della palazzina mia (che in questo caso visto che stai bloccata lì perché nessuno ti apre ti farebbero pure un favore).

Unica soluzione. Scavalcare il cancello, Anche se è piuttosto alto e pieno di spuntoni in cima.
Lanci ma borsa dall’altra parte e senti il rumore di qualcosa che non doveva cadere a terra così rovinosamente. La boccetta del profumo.

Ottimo per strada lascerò una scia.

Finalmente a cavalcioni del cancello. Suona il cellulare. Il nome sul telefono non ti permette di non rispondere.

«Ciao Cristiano, È un po’ che non ti sentivo. Come? Due settimane? Quali racconti scusami? Ah sì, Hai ragione quelli che ti dovevo consegnare ad agosto… in che mese siamo? Già. Quasi dicembre». OTTIMO.

Nel corso della telefonata, Abbarbicata sul cancello vedi arrivare il postino, Guarda prima con interesse questa specie di scimmia metropolitana e poi la fila di campanelli.

«Scusi ha mica un pacco per Amal Serena? Perché sarei io… Cristiano senti, è un momentaccio ti richiamo tra un po’».

Firmi questo foglio in una posizione da equilibrista degna di uno stunt-man. Ora vicino alla tua borsa imbevuta di profumo, c’è pure lo scatolone dei libri.

Conto fino a tre e salto. Un respiro profondo e salto.

In quel momento qualcuno apre il cancello, Quindi lo scatto della serratura e il peso di questa specie di scimmia arrampicata sopra lo fanno lentamente ed inesorabilmente aprire. Il muro e la schiena dopo un attimo sono un tutt’uno.

Io ne sono convinta. La sfiga mi rincorre con la motocicletta....