domenica 15 luglio 2012

Il vicino

Il mio vicino stende della roba colorata.
Quell'altro vicino stende i mutandoni della nonna.
Forse è la nonna.
Poi c'è il vicino con la bandiera dell'Italia. Ma quella dei mondiali del novanta, che qui siamo a Genova e bisogna risparmiare.
Per loro il vicino sono io.


Quella cosa strana che si fuma le sigarette sul terrazzo pendente guardando il mare.


Anche il mio vicino si fuma le sigarette in terrazza. E tra i vestiti neri appesi mi osserva mentre scrivo su un computer bianco. Vestita di nero, ovviamente.


Scusami caro vicino.
Te lo devo dire.
Nonostante quei vestiti neri la tua vicina non è una black bloc.
Ma tu puoi pensare che lo sia.
La tua vicina non ha mai tirato una pietra.
Anche se ti vuoi convincere che quella bandana lì non l'ha usata solo per mettersela in testa e trattenere il sudore in viaggio.


Ciao vicino, ora ti racconto una storia.
Non è colma di buoni sentimenti. Quelli forse non esistono. 
Ma sento di dovertela raccontare.
Sennò esplodo.
O forse implodo, che è peggio.

Questa è la premessa.
Qui troverai probabilmente molto sangue, lacrime e merda. Tanta, tanta merda.
Per cui sei autorizzato a non andare avanti. A non ascoltarmi ulteriormente.
Perché in quello che scriverò non c'è niente di brillante.
Non ci sono analisi profonde.
Non c'è la verità né la luce né la saggezza.
Ci sono solo un secchio di emozioni che mi stanno spaccando in due il cranio e il cuore, che mi annodano la gola e mi stringono lo stomaco.
Mi dispiace. Certe cose continuo a prenderle sul personale.
Anche dopo undici anni.
Perché ci sono storie che abbiamo vissuto in tanti, che hanno un legame collettivo, ma che hanno - in un modo o nell'altro - cambiato le nostre vite personali.
Per cui ti racconto una storia.
Una storia che non ha un lieto fine. Che non è finita, perché purtroppo non può finire.


Undici anni fa avevo sedici anni, ed ero già una testa di cazzo da competizione.
Undici anni fa vestivo di rosso e arancione, avevo dei capelli lunghissimi e incolti e l'ingenuità di chi già combatte per qualcosa ma non ha ancora gli strumenti e l'esperienza per rendersi conto di quello che fa, o che dice. L'unica cosa che capivo è che c'erano delle regole nel mondo sbagliate.
V for Vendetta non l'avevo ancora letto, ma nella mia testa di adolescente quel monologo davanti alla Giustizia l'avevo già fatto qualche volta, non solo con la Giustizia degli uomini, ma anche con quella divina, che mi aveva già preso a morsi non poco.
Ed ero piccola.
Cristo se ero piccola!
E le cose accadevano veloci e io stavo lì in mezzo a dover imparare gli strumenti per comprenderle troppo in fretta.
Perché è andata così. Le ho imparate troppo in fretta, come quando si studia un libro la notte prima di un esame.
Sicuramente le cose non le apprendi del tutto, soprattutto se come me non sei una persona particolarmente brillante.
Undici anni fa è l'inizio di Genova. L'inizio di una primavera inconsapevole.
San Giorgio e il drago. No aspetta. San Giorgio È il drago. 
Genova è stata il ventre della bestia.
Ci ha uniti e divisi in modo irreparabile.

Sto divagando.
Scusami.
Non è questa la storia che volevi sapere.

I miei vestiti neri, appesi alla finestra. Scherzando con un'amica una volta abbiamo detto che i nostri vestiti neri rappresentano il lutto dei sogni.
Neanche sforzandoci saremmo riuscite a trovare qualcosa di più emo da legare alla politica.
O quantomeno alla realtà. Perché sono due cose che vanno a braccetto.


Un amico in carcere non è mai una bella cosa.
A chi come noi è rimasto per anni su quella soglia di lotte al limite tra legale e illegale purtroppo è capitato più di qualche volta di urlare il nome di qualche amico prima delle parole LIBERO - LIBERI TUTTI.


No basta. Non divago più.
Non devo raccontarti la storia della MIA vita in poche righe.
Non lo voglio nemmeno fare.


Vorrei trovare solo le parole per raccontarti perché sono sotto shock.
Perché Alberto che entra in carcere oggi è una cosa che stringe il cuore.
Ok sì, ho fatto il nome di Alberto, forse perché è quello che conosco meglio, quello per cui ogni anno in cui sono stata al Crack ho fatto un disegno per Scarceranda alle tre di notte, non proprio lucida (e dopo che lui mi inseguiva con fogli e pennarelli dalle quattro del pomeriggio).
Quelle condanne sono troppo per me, che mi sono tatuata addosso quella frase per ricordarmi di accettare le cose che non posso cambiare, cambiare quelle che posso e avere la saggezza di comprendere sempre la differenza.
Ma adesso, a parte abbassare le braccia davanti alla rabbia all'impotenza, davanti al corpo che urla silenziosamente da dentro, che posso fare?
Sono qui che scrivo di notte, dopo due giorni che vomito parole a caso senza capire come mi sento davvero.
Dopo che ieri ho pensato che distrarmi dalla sentenza con un paio di whisky fosse una cosa giusta, salvo poi rendermi conto di provare schifo per ogni cosa che avessi attorno.
Dopo che stamattina ho chiesto a Mina e Laura di nascondere il giornale perché non volevo leggerlo, ma era lì sul tavolo, aperto su quella pagina che da ieri sera non volevo leggere, sotto alle tazzine di caffè già svuotate più volte, perché il sonno ieri è arrivato per il tempo necessario a smaltire quell'alcol che avevo in corpo (ovvero nell'ordine delle tre-quattro ore).
Io quando ho letto i numeri su quella pagina sono stata MALE. 
Un male cane.
Non mi sono messa a piangere perché volevo fingere di essere un po' più forte di quanto io non sia realmente, ma avevo la pelle d'oca.
Sono più di 24 ore che ho la pelle d'oca, perché questo pensiero non è che mi sta sfiorando, m'investe. Mi entra dentro come un treno in corsa (e lascia le mie budella spiaccicate sui binari).


Perché è l'apoteosi dell'ingiustizia. Non è vendetta capiscimi, io non ci credo alla vendetta. Quella è un giochetto dei bambini, la ripicca. O dei fidanzatini scemi.
Qui c'è un avvertimento.
Ce lo stanno dicendo chiaro e tondo: abbassate le braccia. Arrendetevi. E non uscite dai limiti. E smettetela di fare i paragoni con le pene date alle Forze dell'Ordine.
Due pesi e due misure.
Ve l'abbiamo già detto.
One for the money, two for the show.
Si crea la giurisprudenza per trasformare un reato fascista in un reato democratico. Per il concetto strano di democrazia che si ha in questo paese.


E io, che altro posso fare a parte non appendere i pantoni al chiodo e disegnare qualcosa che sia bello come una prigione che brucia?
Che altro posso fare a parte fumare un milione di sigarette, scrivere a letto perché spero che il sonno mi colga prima di prendere invio e mi dia quiete?
Niente.
E domani non andrà meglio.
Anche se io sono libera.
Non passerà davvero.
Perché io quelle vie le ripercorro ogni giorno, da quando nove anni fa sono venuta a vivere qui in pianta (più o meno) stabile.
Ogni volta che il treno passa da Brignole e vedo via Tolemaide ci penso, anche solo per una frazione di secondo, è un riflesso incondizionato. Ogni volta che passo da Piazza Alimonda per andare verso Corso Europa guardo se la targa di Carlo è ancora al suo posto, con i fiori secchi appoggiati sopra.
Poi tiro dritto, e vado verso il mare.
Perché è sul mare che finiscono le vie a Genova.


Se devastazione e saccheggio è un reato imputabile a chi, con il sostegno di una massa, mette in pericolo l'ordine pubblico, perché non sono processati per lo stesso motivo i carabinieri che fecero partire la carica di via Tolemaide?
Per quale motivo viene legittimata la morte di un ragazzo di 23 anni, viene legittimata una mattanza come quella della Diaz, vengono alleviate le pene per le torture di Bolzaneto e ci sono al momento 5 persone con decine di anni di carcere da scontare?
DECINE DI ANNI.
Decine.
No tre anni e otto mesi.
No una tirata d'orecchie.
Non è la Diaz la condanna simbolica. Nossignore. Il vero punto del vento che cambia è questo. Questa sentenza qui. Questa galera che arriva dopo uno strazio di dieci anni, dopo due anni di misure cautelari.
Prima di quelle lacrime e di quelle urla che si ostinano a non uscire dal mio corpo.


Io non dimenticherò mai il giorno della sentenza di primo grado, quando sui gradini del tribunale con Davide ci siamo abbracciati e siamo scoppiati a piangere.
Non dimenticherò mai il giorno della sentenza d'appello, quando la notizia mi ha raggiunto mentre ero nel magico mondo di Cinecittà a girare un corto e dovevo far finta di niente, perché lì dentro questo tipo di storie erano bandite.
E non dimenticherò mai ieri, quando l'ansa mi ha sbattuto in faccia la sentenza e io mi sono accasciata sul divano, iniziando a irrigidirmi, per assorbire il colpo.
Perché la sproporzione è così grande che non puoi non vederla, non puoi far fatica a capire che è reale.
Fino a che non arriva quel messaggio, che ti dice che i tuoi compagni stanno entrando in carcere in quel momento.
Che ci sono un sacco di persone fuori a salutarli.
E c'è quel cazzo di cancello che si chiude.


Come ti dicevo questa è una storia che non è finita. Perché quei cancelli chiusi non permettono che finisca.