mercoledì 27 giugno 2012

Sette modi di prendere il volo

Dalla finestra di casa - 20/06/2012

Mercoledì. Hai dormito tre ore. La sveglia non è delle migliori. 
Non c'è più il posto in furgone e tu volevi davvero partire questa volta.
O forse no.
Macaia.
Cose complicate.
E sì che lo Scirocco dovrebbe esser passato.
Stanchezza nelle ossa, nei muscoli nei nervi.
Occhi gonfi e segnati.

Il primo modo di prendere il volo.

Bisogno di andare al mare.
Corso Europa e Aurelia son quasi deserte. Va bene.
La moto corre, Giò accelera. Non vedi il quadrante ma dalle vibrazioni sotto il sedere sai che sta tirando.
Grazie.
Avevo bisogno dell'adrenalina per prendere il volo nonostante la mia pesantezza.

Ottima idea. Gli scogli sono deserti. L'acqua è limpida e calmissima. Sul fondo si vede una grandissima medusa bianca.
La guardi finché non prende il largo.
Va bene. Prendiamo fiato.

Il secondo modo di prendere il volo.

Il primo tuffo si porta via il primo strato di pelle morta, di stanchezza, di tensione, incertezze.
Risalire dal tuffo è mettersi a volare.
E poi immergersi.
Apnea.
Pace.
Equilibrio.

foto brutta del cellulare

Giovedì.
Hai dormito comunque meno di cinque ore e devi partire in treno.
Roma.
Caldo infernale.
Temperature ostili alla vita.
Annettta. Dirle di tornare a casa. Di lasciare Roma.
Ti manca.
Resistere.
Init.
Pinguini che fanno un check precisissimo.
FBYC che arrivano tardissimo e il check decidono di non farlo.
Pinguini e FBYC che spaccano. Tutti e due.
Un milione di gradi sul palco.
Decine di bottigliette d'acqua.
Qualcuno che perde un po' di sangue.
Tutti che perdono litri di sudore.

Gazebo Penguins @ Init Club - Roma 21/06/2012

FBYC @ Init Club  - Roma 21/06/2012

Il terzo modo di prendere il volo.

Il momento in cui appoggi la macchina fotografica e timidamente attraversi il palco.
Guardi negli occhi Andrea: "Prendimi".
Sulla gente, lanciandoti di schiena, fidandoti di loro.
Sperando di non aprirti anche tu la testa come ha fatto Jacopo mezz'ora fa.
Si muore di caldo e stanno per farti cadere male.
Jacopo ti recupera per le braccia, ti risolleva sul palco,
Via, dietro all'ampli ridendo, sorridendo, un inchino.
Strizzare le magliette per il sudore come se foste caduti in piscina.
Una piscina. Magari.

In motorino fino a San Lorenzo e il giro della staffa che dura finché c'è l'alba.
Quella mail che aspetti, che leggi prima di dormire, che ti prende a pugni lo stomaco. Perché il contenuto non è quello che speravi.

Il quarto modo per prendere il volo.

Ma questa volta verso il basso, verso tre ore di sonno ubriaco e un po' triste.
Ma è pur sempre un volo.

Venerdì. Arrivare a Napoli.
Difficile.
Programmi che saltano.
Treni che non ci sono.
Pranzo saltato.
Aspettare più di mezz'ora agli imbarchi di Ciampino. Perché è lì che ti verranno a recuperare con il furgone.

Il quinto modo di prendere il volo.

Con la testa.
Immaginarti in viaggio, in viaggio per davvero, non come una pallina del flipper.

FBYC @ Mamamu - Napoli 22/06/2012

Napoli.
Il parcheggiatore abusivo che non vi fa mollare il furgone.
Il locale piccolo come il salotto di casa.
Daniele con la sua flemma delicata.
Camminargli accanto e accorgersi di andare al triplo della velocità.
Alino che affronta lo sciopero per dire "Ciao".
Uno spritz a Napoli fa sempre ridere.
E questo locale troppo piccolo per i FBYC.
Moriremo tutti.
Non ci si può stare qui dentro.
Le foto solo per metà concerto. E poche.
Di nuovo volare sulla gente, tirata su dai ragazzi. Immortalata.

Foto di Lucio Carbonelli (buttare via la reputazione #1)
Foto di Lucio Carbonelli (buttare via la reputazione #2)

Va bene. Sorridi.
Sei di nuovo fradicia di sudore.
La barista che non vuole saperne di darti solo acqua.
Jacopo che ti nasconde i bicchieri.

Sabato.
Prendere il treno all'ultimo minuto utile, salutando al volo. Corriamo.
Un telefono scarico.
Una mela.
Di nuovo tre o quattro ore di sonno sul groppone.
Tempesta.
Caldo.
Troppa roba che suona in levare.
Però ci sono delle cose belle.
Tipo gli Uochi Toki.
Napo.
L'hai ritrovato.
Figata.

Foto per Pressappoco

A casa, non tanto tardi ma diversamente presto.
Addormentarti perché ti spegni, come quando si scaricano le batterie del cellulare.

Domenica. Potevi dormire ma il tuo cervello non ha voluto davvero che tu lo facessi.
Una lettera sul tavolo che finisce diretta nella scatola disordinata delle cose belle.
Una doccia fredda.
Perché vorresti prendere il volo in quel momento ma non puoi.
Una doccia fredda che si porta via postumi e stanchezza, e poi una doccia calda per convincere il tuo corpo alla vita.
Mauro e Meme che tornano.
Il pranzo pronto sul tavolo per strappar loro un sorriso. 
Due ore di autismo accanto a Mauro, di uscire non se ne parla.
Troppo caldo.
Fatica.

Di nuovo Tempesta.

Il sesto modo di prendere il volo.

Seduta sulla cassa arriva Mauro, salti dalla transenna e gli finisci dritta in braccio.
Va bene.
Che bello.

Questa volta sei tu che sei andata a trovare Kole.
Dovresti farti perdonare una certa figuraccia.
Ma non lo fai proprio benissimo.

Max che spunta dal cappello.
Tornare a casa alle sei e mezza.
Molto presto se l'orario lo guardi dall'altra parte.
Addormentarti di peso.
Dormire poco.
Il caffè lascialo fare a Mauro che tu con la sua caffettiera ci litighi.
Il treno, partire.

Telefonata fiume. Fatica a parlare.
I binari che scorrono dietro al treno.
Il mare che gli scorre accanto.
Stanchezza estrema.
I tetti grigi che arrivano al tramonto.
Sono a casa.
Vienimi a prendere e portami al mare a morire subito.
O a volare un po', di notte.

Il settimo modo di prendere il volo.
Tornare a casa al tramonto.

Genova Brignole 25/06/2012

mercoledì 20 giugno 2012

Marirami

Quest'anno non disegnerò il manifesto della Tattoo Convention di Genova come ho fatto gli anni precedenti.
In ogni caso è capitato che un amico mi chiedesse di disegnargli un albero. Ci ho pensato a lungo su quale fosse l'albero migliore per lui tra i tanti che ho disegnato ultimamente. Alla fine ho deciso di regalargli un Marirami.


Il Marirami è un albero leggendario e molto raro che viene chiamato anche albero delle maree.
Trovarlo non è facile, bisogna affrontare mari agitati, muri d'acqua e vento.
Cresce ne cuore delle tempeste e ha rami di vento e chiome di onde lunghe.

Predilige il vento freddo e secco di nord-ovest, infatti, se ci si trova vicino al nucleo della tormenta, lo si riesce a scorgere tra le onde lunghe delle mareggiate di Maestrale.
Quando la tempesta passa, anche lui svanisce, come se niente fosse, ma, se l'avete visto almeno una volta, non potete dimenticarlo.
Io l'ho visto, anche se mi sento un po' come Antoine de Saint-Euxpéry quando provò a ritrarre il Piccolo Principe e le sue mani non riuscirono a rendergli onore.

Derive, immagini, parole al vento.
E un albero delle maree, che cresce nel cuore della tempesta, come uno stato d'animo.

Dopo la grande mareggiata - Genova, dicembre 2011.

giovedì 14 giugno 2012

Le cose belle

Lo Scirocco non è un buon vento. Porta cattive notizie, stanchezza, mareggiate e rende pazzi. 
Quando soffia Scirocco non si scende in mare, le nuvole non si diradano e i fiumi non defluiscono.

La settimana scorsa ha soffiato Scirocco e per me è stata la settimana delle cattive notizie.
La settimana delle cose che fanno male, dove il dolore finalmente si manifesta dopo che è rimasto una lunga linea costante a cui sei abituata.
Esplode.
E fa un male cane. 
Fa urlare di rabbia la notte. Ti sveglia, ti smonta, ti annega.

Poi è un attimo. 
E finisce.
È lui ad affogare questa volta. In quella mareggiata, Dove rimani con i piedi a mollo con Leo per mezz'ora a pensare che avresti voglia di lanciarti comunque tra le onde. Ma non lo fai. Rimani con le braccia incrociate dietro la schiena, la schiuma bianca che ti schiaffeggia e un sorriso. Il primo. Quello che ti fa ricominciare, quello che ti fa capire qual è il potere del mare su di te. 

Sori - 10/06/2012

Lunedì, Milano. Magnolia. Hai ricominciato a star bene. Ma non del tutto. 
Ma c'è Marta.
Che non la vedi da quando è partita per i Paesi Baschi. C'è Marta a ricordarti un po' chi sei e da dove vieni (e che forse non le sbagli propio tutte). 


C'è Kole. Che ti ha conosciuto da poco ma che in realtà hai incontrato mille volte. Che abbandoni, giustamente, nelle mani di Marta.


C'è Gianluca. Che è una delle persone più importanti dell'anno. Di cui ho un sacco di foto che gli ho rubato in giro ma che non pubblico perché lo conosco e so che gli dà fastidio. 
Ma è colui che mi porta in giro con i suoi gruppi da sette mesi a questa parte, con sulle spalle la macchina fotografica e il computer, e nella saccoccia gli incontri. E che io non ringrazio mai abbastanza. 
Va bene.
Funziona.

Il giorno dopo c'è il pranzo che aspetti da qualche mese. 
Dove ci sono loro. E la loro sala riunioni.
Loro che sono mesi che senti e incontri in situazioni incasinatissime. Da Lucca al Salone del Libro di Torino, da qualche concerto in giro, a quell'attimo in cui quando passi da Milano vuoi trovare per il caffè.
C'è questo pranzo che è il momento in cui le cose belle riprendono tutte forma. 
E cambia il flusso.

 (Bao al Salone Internazionale del Libro di Torino)
(Bao al Salone Internazionale del Libro di Torino)

I ragazzi di BAO. Quelli che ti regalano le storie belle. Quelli che fanno in modo che quando soffia Scirocco tu abbia sempre qualche appiglio. Quelli che fanno delle cose belle. Perché io ho bisogno di storie che mi incantino come ho bisogno dell'ossigeno e loro riescono sempre a farmele avere tra le mani. 
E tu li guardi, lo sai che sei la loro amica disordinata e rumorosa, che con la loro precisione non hai molto a che fare, ma ti vogliono bene (e ancora non capisci molto bene il perché, ma al contrario hai perfettamente chiari i mille motivi per cui li ami, per cui ti senti di dire che non è mai troppo tardi per gli incontri belli). 
Le altre persone importanti dell'ultimo anno. Tra le più importanti di sicuro. Anche se a volte ti senti come un tossico dipendente quando si innamora del suo pusher. Ma questo è un dettaglio trascurabile.
C'è quel momento alla fine del pranzo dove hai tenuto banco (dove hai spaventato i loro stagisti, dove non ti sembra vero di esser per due ore seduta nello stesso posto con loro senza che arrivino 57 impegni al secondo) c'è quel momento a fine pranzo, dicevo, dove ti fumi una sigaretta con Caterina sul balcone e per la prima volta le dici che no, non va tutto bene, lei ti sorride, ti guarda e ti dice che hai bisogno di una storia che ti emozioni.


Esattamente come hanno fatto tante volte Leonardo o Michele (di cui con profondo rammarico non ho nemmeno una foto), che mi hanno regalato le mie storie preferite. 

Ecco, è questo che fanno i Bao: mi regalano storie che funzionano come medicine ad ampio spettro per sopravvivere, per sorridere, per non farmi investire dalla tempesta.
E io sono lì che mi chiedo come e quando arriverà il giorno in cui le potrò ricambiare. 

E un pomeriggio con TIto, ospite nel suo studio pieno di persone che fanno cose bellissime. Un pomeriggio a lavorare faccia a faccia, due ore e mezza di concentrazione e silenzio, dove non mi faccio comunque scappare l'occasione per ritrarlo.
Credo che siano i ritratti più belli che ho fatto fin'ora. 



Poi c'è l'emozione. Quella che ti fa capire che questa volta Milano la stai amando per molto più di un giorno solo.
Quando Bianca torna da Genova a Milano in tempo per accaparrarsi la tua valigia. 
Ci sono un fiume di cose da dire concentrate in due ore.
C'è la mattina dopo in cui, a furia di stare in giro, ti svegli e il tuo corpo di dice "Sorpresa! Non sai assolutamente dove sei e no, quello che vedi fuori dalla finestra non ti aiuta a capire niente". Un po' come John Doe all'inizio di ogni volume dopo che è finito nella prigione degli universi narrativi.
Tornare da Bianca con la spesa. Il pranzo in terrazzo. Con quella vista che ti fa sembrare bella anche Milano.


Bene. La valigia devi rimettertela in spalla. Una notte a Genova, poi Torino, poi di nuovo a casa per qualche giorno, ancora non sai quanti giorni. 
C'è l'ultima lezione dell'anno in cui saluti i tuoi allievi di sceneggiatura, non senza emozione. 
C'è questa foto che ti ha fatto Bianca che dice più di ogni altra cosa, più di tutte le parole che hai vomitato qui, più di tutte le foto che hai fatto. Perché in questa foto hai il sorriso delle cose belle.

Foto di Bianca Weiss Tabaton

sabato 9 giugno 2012

La sfiga mi rincorre con la motocicletta...

... e io ovviamente sto correndo scalza su una via di ghiaino e vetri rotti.

Nel lontano dicembre 2009, vivevo a Roma, ospite a casa di un amico in un posto dimenticato da Dio e dagli Uomini sulla Cassia. Risalito agli albori della cronaca pochi mesi prima per l'avvincente storia di Marrazzo.
Era un periodo come questo, in cui le cose girano un po' a fatti loro e per quanto tu cerchi di essere ottimista, l'ottimismo ti deride e si suicida davanti ai tuoi occhi ingoiando forti dosi di veleno.
Nell'ultima settimana credo che non sia passato un giorno intero senza che ci sia stata una piccola apocalisse nella mia quotidianità: gastrite acuta (roba che se non la prendevo in tempo mi acchiappavo una nuova ulcera), ascesso del dente del giudizio, pessime notizie, processi alla forma e alle intenzioni, solitudini, due di picche.
Tutta roba su cui provo a riderci sopra mentre la mia ironia decide di seguire l'esempio dell'ottimismo e di spararsi un colpo in bocca. Sempre davanti ai tuoi occhi, of course.
Allora succede che poi pure Afrodite (il mio amato MacBook) a un certo punto non vuole accendersi più. Lo fa dopo un forte numero di bestemmie e tre tentativi di avvio. Un po' come Gesù Cristo risorse dopo tre giorni.
Succede che su twitter, la mia amica (immaginaria) Nina Sever mi ricorda questa cosa del 2009. Di me a cavalcioni su quel cancello. Succede che recupero il post. Succede che ve lo faccio leggere. Perché mi sembra una bella metafora del mio stato d'animo di questo momento. Mi sento su quel cancello, in quel limbo. Ancora adesso. Nei secoli dei secoli.


Roma, 2 dicembre 2009.

È una mattina di quelle che iniziano con la sveglia che suona ripetutamente per delle mezz’ore, ti rigiri nel letto, ti copri la testa con il cuscino, ti ricacci sotto le coperte, hai freddo e il sonno è arrivato da appena due ore. Se va bene.
Dopo un lungo tempo passato a cercare di fuggire la realtà, prendi il telefono in mano e scorgi con orrore che è già parecchio tardi.
Ti alzi di scatto, Ti vesti con le prime cose che afferri, Il beautycase lo infili a casaccio nella borsa insieme alla spazzola (dopotutto sono un’ora e tre quarti di mezzi per arrivare in ufficio, puoi tranquillamente pettinarti e truccarti tra autobus vari e metro).

Esci dalla porta. Chiami l’ascensore. Rientri un attimo per controllare di non esserti dimenticata nulla. Ok. C’è tutto. Chiudi la porta, metti le mani in tasca del cappotto per prendere le chiavi.
Ah già. Le chiavi.
Sono sul tavolo, ovviamente.

Ok, non è il caso di invocare i demoni solo per le chiavi, il coinquilino tornerà prima di te e qualcuno che ti apre stasera ci sarà sicuramente.

Piano terra, Apri la porta a vetri, Ti si chiude alle spalle.
Ottimo. Il tasto per aprire il cancello è solo DENTRO la porta, quindi sei decisamente bloccata in quel limbo a forma di corridoio che separa la porta dal cancello.

Provi a fermare i passanti (che in questo posto sperduto sono decisamente pochi) chiedi loro se cortesemente possono suonare tutti i campanelli dei vicini perché trovino qualcuno che ti apra.

Beata diffidenza. Non uno che apra quel maledetto cancello. Se arrivo in ritardo al lavoro con questa scusa mi bruciano a me e a tre quarti della palazzina mia (che in questo caso visto che stai bloccata lì perché nessuno ti apre ti farebbero pure un favore).

Unica soluzione. Scavalcare il cancello, Anche se è piuttosto alto e pieno di spuntoni in cima.
Lanci ma borsa dall’altra parte e senti il rumore di qualcosa che non doveva cadere a terra così rovinosamente. La boccetta del profumo.

Ottimo per strada lascerò una scia.

Finalmente a cavalcioni del cancello. Suona il cellulare. Il nome sul telefono non ti permette di non rispondere.

«Ciao Cristiano, È un po’ che non ti sentivo. Come? Due settimane? Quali racconti scusami? Ah sì, Hai ragione quelli che ti dovevo consegnare ad agosto… in che mese siamo? Già. Quasi dicembre». OTTIMO.

Nel corso della telefonata, Abbarbicata sul cancello vedi arrivare il postino, Guarda prima con interesse questa specie di scimmia metropolitana e poi la fila di campanelli.

«Scusi ha mica un pacco per Amal Serena? Perché sarei io… Cristiano senti, è un momentaccio ti richiamo tra un po’».

Firmi questo foglio in una posizione da equilibrista degna di uno stunt-man. Ora vicino alla tua borsa imbevuta di profumo, c’è pure lo scatolone dei libri.

Conto fino a tre e salto. Un respiro profondo e salto.

In quel momento qualcuno apre il cancello, Quindi lo scatto della serratura e il peso di questa specie di scimmia arrampicata sopra lo fanno lentamente ed inesorabilmente aprire. Il muro e la schiena dopo un attimo sono un tutt’uno.

Io ne sono convinta. La sfiga mi rincorre con la motocicletta....

domenica 3 giugno 2012

Trattamento Sanitario Obbligatorio

Rido per strada come i matti.
Rido per la nostra collezione di collezioni assurde da rimorchio 2.0,
Rido per delle nozze d'argento festeggiate prima del primo bacio,
Rido per aver fatto completamente finta di leggere quella quarta di copertina,
Rido per il divano
Rido per i tuoi wow!
        [che al quarto già credevo che stessi mentendo, ma forse non stavi mentendo].
Rido per le stesse ossessioni,
        per quel caffè che al primo sorso fa schifo e al secondo già mi piace
Rido per i disegni nascosti negli angoli di casa
Rido perché le cose succedono
Per quei cucchiaini rubati
Per il cielo aperto sui binari della stazione
Per i saluti veloci
Per gli addii non detti
Per una bicicletta non legata
Per i marinai sui treni
Per i binari
Rido per i tuoi “sei bella” e per le mie facce rosse
Rido per quel libro nero come la rabbia,
Rido perché ho scritto una poesia, perché rendere questa cosa in prosa non mi riusciva,
Rido perché sono partita per non tornare, ci siamo incontrati per lasciarci.
Rido per la mia acidità di stomaco che uccide tutte le farfalle prima che arrivino,
rido e basta, da sola per strada.
Come fanno i matti.


Foto di Anna Lucylle ©

venerdì 1 giugno 2012

Di nero, di bianco e di rosso a giugno.



Nero, addosso, rigorosamente.
Rosso, addosso, nei dettagli, in testa.
Bianco. La pelle. Il computer, la scritta sulla mia maglia, i fazzoletti.
In questo momento è rosso su bianco.
Rosso sangue. Quel fiotto di sangue che mi è uscito dal naso appena mi sono seduta su questo treno.
Il tempo di decidere se aprire quel libro nero che mi hanno regalato o se scrivere o se ascoltare solo della musica.
Prima pulisco il sangue, poi mi prendo un'aspirina.
Non ce l'ho aspirina.
Poi ci penso.
Ma solo dopo.
Perché ora vorrei chiudere il diario di viaggio che ho promesso a un'amica, ma mi mancano le parole.
Sarà che ho la febbre.
Sarà che sono stanca, stanca morta, abbastanza stanca da avere un sorriso stampato sulle labbra.
O da ridere da sola per strada, perché agli altri non deve importare il perché e il per come.


Adesso è solo musica nelle orecchie.
E un po' di nero addosso e un po' di sangue rosso sulle mani bianche e sui fazzoletti.
Sono colori frammenti, immagini, suoni. In ordine sparso.

I soliti chilometri a colazione dopo il caffè, anche lui nero. E la tazzina bianca e lo smalto rosso, rovinato, sulle unghie.

Mercoledì a Padova. Alla Golena San Massimo, i Fenster, Gianni che spunta dal cappello, Tiziana, otto anni che non ballavamo insieme sotto palco, troppe birre, qualche sorriso, il furgone che prende fuoco e tutti quei fili che, nonostante siano passati dieci anni, non si sono interrotti.

E poi la notte con la visione in sogno di mia madre che si sveglia alle sei e mi trova stanca morta sul divano e mi porta per mano a dormire nel suo letto, e mi lascia un biglietto sul comodino. Il saluto più etereo di questi anni.

Da Padova a Bologna in macchina con mio padre, che mi fa quella promessa, dopo tanti anni che provo a convincerlo, e io riesco solo a biascicare quattro parole in croce, perché ho la febbre perché sono emozionata e perché voglio credere di avere il tempo per rendere quella promessa realtà.

Bologna inaspettata. Nonostante la febbre, il mal di pancia, i tempi stretti, il nervoso.
Ieri sera al Locomotive, con i Codeine, togliersi i tappi, sedersi appoggiando la schiena alla colonna del palco, appoggiare la macchina fotografica, chiudere gli occhi. Ascoltare.

E il bisogno disperato di qualcosa che mi colpisca al cuore.

Me ne vado. Saluto in fretta, un po' come se ci si rivedesse stasera, quando usciamo dai nostri uffici immaginari.
Non ho più voglia di ripartire promettendo di tornare.
Non ho più voglia di tornare dove non sono mai stata veramente.
Non sono in fuga, sono solo in viaggio.
Ma ho imparato a smettere di fare promesse da marinaio.

Verso Genova, la penultima lezione dell'anno con i ragazzi di fumetto alla Genoa Comics Academy e il mare in fondo al terrazzo.

Ora le mani sono pulite.
Mi siedo.
Voglio decidere se aprire quel libro nero di rabbia che mi hanno regalato, ascoltare della musica o scrivere questo post.
Ma prima dovrò togliere il rosso dal bianco e togliermi quel retrogusto ferroso in gola.

E poi sono marinai che incontrano mariai, a volte anche sui treni. Persone che si riconoscono in un attimo. O che forse hanno solo qualcosa da dirsi, o il bisogno di raccontarsi in quattro parole, scelte con cura, che aprono mille finestre, mille storie.
Appunto, raccontare storie. Rimanere in viaggio.

Perché a volte si nasce troppo liberi per stare fermi e non poter fare a meno di seguire la propria natura non sempre è sinonimo di felicità.
Probabilmente l'equilibrio è in quel punto immaginario che sta tra una valigia già pronta per partire e il ritorno.

Foto di Michele Formica ©

Ora dormi bambina mia, che è finalmente giugno e l'estate è arrivata, che il tempo non concede sconti a nessuno, che il viaggio è lungo e tu sei vestita di nero, hai la pelle bianca, i capelli rossi e ogni tanto ridi e sorridi per strada senza che nessuno possa capirne il motivo.