“Ciao M. scusa il disturbo, avevo bisogno di parlare con qualcuno prima che mi inizino a tremare le gambe come a una cretina”.
“Sto andando alla presentazione del libro dell'alto M. per questo senti casino, che è successo?”
“Sono tornata a Genova stanotte e sono appena stata in Piazzale Kennedy, sai dove portano le auto distrutte dall'alluvione dello scorso 4 novembre? Ecco sì, proprio lì. Sai... lo scenario è strano, credimi, nemmeno dopo il G8 ho visto una cosa così. Mi tremano le gambe, riprendimi che devo salire sull'autobus, tu ce l'hai questo super potere no? Quello di rimettermi in riga quando perdo il controllo. Ecco contrapponilo al mio, quello di “vedere le cose”, perché mi sono sentita come Chew, lui mangia le cose e vede le loro storie. Per me è uguale: ho guardato quelle macchine e ho visto tutta la storia. Non sono riuscita a non farlo”.
“Hai fotografato una situazione statica, è il dopo non è più la botta dei primi giorni, non empatizzare troppo, vedrai che poi non ti tremeranno le gambe”.
E anche se avevi avuto una giornata terribile in un attimo, come al solito, hai avuto ragione ma soprattutto hai trovato le parole per non farmi tremare le gambe come una bambina imbecille. Grazie.
Lo avevo detto che a me non reggeva il cuore, per questo nonostante tutto avevo scelto di andare in tour con i Balmorhea. Perché ogni tanto la mia vena di mediattivista, può anche venire meno. Alla fine non sono mai stata un'amante della prima linea, la mia sciarpa rossa, grande distintivo degli stupidi e inutili intellettuali di sinistra, mi ha sempre rappresentato. Anche se non sono propriamente un'intellettuale. Mi piace mettere le mani nelle storie e comprenderle quando si abbassa l'attenzione, quando non sono più la notizia in prima pagina. Voglio ragionare a mente fredda e sangue caldo e per farlo mi serve sempre arrivare un attimo dopo del momento migliore.
Non ero nemmeno convinta di andarci in Piazzale Kennedy, prima tappa al rientro per capire. Poi mi aspettano le vie, gli angeli del fango e non so cos'altro. Sarebbe sicuramente più giusto se non fossi attaccata alle storie ma fossi più pratica, se mi limitassi a mettere gli stivali di gomma e a spalare il fango.
Comunque è stato facile entrare al cimitero delle macchine. È bastato presentarmi lì con la macchina fotografica al collo, dirigermi immediatamente dagli agenti di Polizia Municipale, mettere uno sguardo deciso e dire loro “Salve, devo fare delle foto per un articolo per XXX volevo chiedervi se posso entrare e se qualcuno di voi può accompagnarmi in modo che io non mi metta in situazioni di pericolo”. Ha funzionato, non hanno voluto vedere nessun tesserino, un agente mi ha accompagnato e mentre fotografavo il cimitero raccontava spontaneamente la situazione. Mi diceva che quella montagna di fango lì in fondo è fatta con quello che tolgono dalla Val Bisagno e che portano qui per caricarlo sui camion e smaltirlo. Esattamente come le macchine: “Vede signorina, non vengono tutte dalla zona del Bisagno, alcune arrivano anche da Quarto, ora non ricordo bene il nome della via... Non è impressionante? Per esempio, questa fila di motorini impilati, la vede questa montagna? Ecco ci metteremo settimane a rimetterle a posto in fila e a rintracciare i proprietari. Qui vengono le persone che hanno perso le macchine durante l'alluvione, alcune hanno la targa altre ti dicono solo che tipo di macchina stanno cercando e noi li accompagniamo in giro per chiudere la pratica. Faccia attenzione, non si avvicini al fango, non sembra ma è molto più pericolosa di quello che crede quella montagna”.
“E quei ragazzi laggiù con lo skate che saltano sui tetti delle macchine?” (ammetto che era l'ultima immagine che mi sarei aspettata di vedere in quel momento).
Andiamo dai ragazzi per consigliare loro che non è proprio una buona idea quella di fare acrobazie in quel punto, sono stranieri, sono arrivati da poco e non parlano nemmeno una parola di Italiano. A quel punto traduco per il vigile, non sanno nemmeno quello che è successo in questi giorni in Liguria, a loro del ciclone non gliene frega niente a quanto pare. Quando gli racconto cosa è successo e perché è meglio che vadano dall'altra parte del piazzale mi dicono che infatti a loro sembrava strano che quello fosse uno sfasciacarrozze e si allontanano. Senza troppe storie. Mi arrampico su un pilone per fare una foto d'insieme, scendo completamente coperta di fango, guardo il vigile e gli dico che in quel momento sporcarmi è l'ultima cosa che mi interessa, gli chiedo di quella macchina gialla messa lì a caso, come se fosse un monito. Mi dice solamente che è lì perché ora stanno svuotando il piazzale ma sono giorni che lavorano incessantemente ed è stata messa lì in quel modo per far spazio alle altre. Esattamente come i motorini impilati di prima.
È come stare in una fossa comune, solo che qui si vuole dare un proprietario a tutte le cose, che è forse molto diverso dal dare un nome ai cadaveri.
Ringrazio, stringo la mano e me ne vado a prendere l'autobus, devo recuperare le chiavi di casa, finalmente dopo tanto tempo ne ho una che mi aspetta. Me ne vado e mentre arrivo in Via di Rimassa alzo il telefono perché non ce la faccio e chiamo M. uno dei miei alleati migliori, quello che è in grado di non farmi tremare le gambe. Perché ho bisogno di non farle tremare, di dirmi che alla fine è solo una storia statica quella che ho visto. Ho visto il dopo, ho deciso di non vivere tutto il resto, di allontanare gli intrusi dalle mie emozioni. Almeno adesso.