Avevo 11 anni e avevo appena perso il mio amico di infanzia, schiacciato da un cancello.
Fu la prima volta che mi resi conto che la morte non era riservata solo ai vecchi e ai grandi.
Si era presa un mio amico, se l'era portato via in modo definitivo.
All'epoca sognavo ancora di fare la scrittrice da grande, sognavo di giocare a calcio meglio dei miei amici e meglio di quell'amico mio lì, con il quale il rapporto era iniziato all'età di 7 anni picchiandoci come due scaricatori di porto sui colli.
Ero una testa di cazzo di quelle con la coccarda e il numeretto da gara già quando stavo sotto il metro di altezza (non che ora io sia poi così alta).
Lo scoprii per caso, cercando la rubrica in casa per chiamarlo per gli auguri di compleanno. Lo scoprii dalla faccia di mia madre, che mi fece sedere sul letto e mi disse "Diego ha avuto un incidente".
Al primo colpo pensai che si fosse rotto un braccio, una gamba. Non capivo. Non realizzavo.
L'articolo di giornale che uscì il giorno dopo l'ho conservato per molti anni.
La foto di Patrizia, la madre di Diego che piange al suo funerale potrei disegnarla senza averla davanti.
Avevo 11 anni la prima volta che ho realizzato che non esiste dolore peggiore per una madre che seppellire i propri figli.
Avevo 11 anni la prima volta che si è rotta l'illusione in me, sentivo quella perdita come un'ingiustizia feroce, come un errore nel naturale ordine delle cose. Nonostante quello di Diego non fosse altro che uno stupido maledetto incidente dovuto alla noncuranza dei grandi.
Ed ero bambina. Avevo l'età che ha mia sorella adesso.
E spero con tutto il cuore che a lei questo morso della vita arrivi il più tardi possibile.
Recentemente mi hanno detto che dovrei avere molto più pelo sullo stomaco. Non riferito a queste questioni ma ad altre.
Ne ho parecchio di pelo sullo stomaco. Ho la pelliccia di un orso sullo stomaco. Non è la pancia a essere colpita, è quella cazzo di rotula che mi porto al posto del cuore.
Ogni volta che sento di una madre che seppellisce i figli i mi ricordo di quella storia. Mi ricordo della foto della madre di Diego il giorno del suo funerale. Mi ricordo dei suoi fratelli.
Immagine tratta dalla copertina del libro ZONA DEL SILENZIO di Checchino Antonini e Alessio Spataro.
Nel settembre del 2005, alla veneranda età di 20 anni, collaboravo con la segreteria legale del GLF ai processi contro le Forze dell'Ordine per i fatti del g8. Ero parte di un collettivo (che esiste tutt'ora) chiamato Supporto Legale, un gruppo di persone che a costo di incubi costanti infilava le braccia nella merda delle storie per sbrogliare la matassa. E che se non credeva del tutto nel concetto di Verità e Giustizia nelle aule di Tribunale, credeva fermamente nel fatto che la Memoria è un ingranaggio collettivo.
La storia della morte di Federico Aldrovandi ci arrivò subito, ci arrivò con una richiesta della madre di non far passare sotto silenzio quella storia che fin da subito risultava agghiacciante.
In Italia abbiamo qualche problema con i concetti di democrazia e di giustizia. Qualche problema è un eufemismo. Direi che abbiamo un problema grave con le Forze dell'Ordine, con i valori democratici, con il rispetto della Costituzione da parte di politici e da parte delle stesse Forze dell'Ordine.
Siamo il paese dove i fatti (e i processi ad essi connessi) della scuola Diaz e della caserma di Bolzaneto hanno mostrato quanto i comportamenti feroci, illeciti e contrari a ogni principio umano e legale siano diffusi e accettati. Dove mentire per spirito di corpo è accettato, perché vanno difese le azioni delle Forze dell'Ordine.
È una cosa che tutti, dai politici ai semplici cittadini che hanno voglia di indignarsi nei tempi dispari continuano a ignorare. O a far finta di farlo.
In questo paese la ferocia delle alte cariche e la vergogna di chi detiene il potere non è riferita al fatto che ammazzare di botte un ragazzino di 18 anni, sparare dei colpi in aria in autostrada, stuprare le detenute, o abusare del proprio potere sia una cosa vergognosa. Ci si inferocisce e si alzano i toni se si viene perseguiti per questo.
Perché la nostra giustizia ha EVIDENTEMENTE due pesi e due misure.
Non prendiamoci in giro.
Quello che è accaduto ieri a Ferrara è uno schiaffo alla dignità di una madre che ha perso un figlio nel modo peggiore che le potesse capitare.
A tutte le madri che in questo paese (non solo quelle dei casi eclatanti o che hanno avuto il coraggio di mettere in piazza il loro dolore) piangono per aver seppellito i propri figli.
È un cancrena che dilaga. Una malattia del nostro paese.
La putrefazione del bene sociale, dell'equilibrio.
È il potere della distorsione dei fatti, quella moda orrenda che abbiamo di stravolgere continuamente le storie, come quando si parla di fantomatici sassi che deviano proiettili o di malori attivi.
Siamo un paese dove chi rompe una vetrina paga con dieci anni di carcere, dove la frase ho solo eseguito degli ordini continua ad essere una buona giustificazione per gli atti immondi compiuti da chi indossa una divisa.
Sarò strana io, ma come diceva la nonna di una mia carissima amica, non riesco a fidarmi di chi - per lavoro - dorme con una pistola accanto al cuscino.
Il mio divario culturale ed etico con queste tipologie di persone è così ampio da scavare un abisso.
Il COISP non è nuovo a queste iniziative orrende, ogni anno il 20 luglio ha il coraggio chiedere il permesso di scendere in piazza a Genova, di indire un Sit-In in solidarietà a coloro che sono i primi fautori di quello che Amnesty ha definito la più grave sospensione dei diritti umani in occidente dopo la seconda guerra mondiale.
Ieri a Ferrara ha avuto addirittura il coraggio di allontanare in malo modo il sindaco della città che era sceso a chiedere di spostarsi.
Ha indetto un sit-in in solidarietà di quattro assassini che, nonostante io trovi che la galera non vada bene nemmeno per i secondini, non sconteranno davvero la pena che la "società" ha chiesto loro di pagare.
A quanto pare la verità costa troppo cara.
A quanto pare in questo paese funziona così.
Funziona che una madre, a otto anni dall'omicidio del figlio, debba ancora scendere in piazza portando con sé la foto di un ragazzo dilaniato dalle percosse. In Italia funziona che una madre, dopo che ha seppellito suo figlio debba vedersi insultare e oltraggiare continuamente dagli autori di un reato infame.
Come se non bastasse quel carico di dolore che si porta appresso. Come se non bastasse la distorsione dei fatti smontata da più e più sentenze, come se non bastasse la detrazione costante a cui viene sottoposta da anni.
Non sono indignata per quel che è accaduto ieri a Ferrara.
Sono inferocita.
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