Nero, addosso, rigorosamente.
Rosso, addosso, nei dettagli, in testa.
Bianco. La pelle. Il computer, la scritta sulla mia maglia, i fazzoletti.
In questo momento è rosso su bianco.
Rosso sangue. Quel fiotto di sangue che mi è uscito dal naso appena mi sono seduta su questo treno.
Il tempo di decidere se aprire quel libro nero che mi hanno regalato o se scrivere o se ascoltare solo della musica.
Prima pulisco il sangue, poi mi prendo un'aspirina.
Non ce l'ho aspirina.
Poi ci penso.
Ma solo dopo.
Perché ora vorrei chiudere il diario di viaggio che ho promesso a un'amica, ma mi mancano le parole.
Sarà che ho la febbre.
Sarà che sono stanca, stanca morta, abbastanza stanca da avere un sorriso stampato sulle labbra.
O da ridere da sola per strada, perché agli altri non deve importare il perché e il per come.
Adesso è solo musica nelle orecchie.
E un po' di nero addosso e un po' di sangue rosso sulle mani bianche e sui fazzoletti.
Sono colori frammenti, immagini, suoni. In ordine sparso.
I soliti chilometri a colazione dopo il caffè, anche lui nero. E la tazzina bianca e lo smalto rosso, rovinato, sulle unghie.
Mercoledì a Padova. Alla Golena San Massimo, i Fenster, Gianni che spunta dal cappello, Tiziana, otto anni che non ballavamo insieme sotto palco, troppe birre, qualche sorriso, il furgone che prende fuoco e tutti quei fili che, nonostante siano passati dieci anni, non si sono interrotti.
E poi la notte con la visione in sogno di mia madre che si sveglia alle sei e mi trova stanca morta sul divano e mi porta per mano a dormire nel suo letto, e mi lascia un biglietto sul comodino. Il saluto più etereo di questi anni.
Da Padova a Bologna in macchina con mio padre, che mi fa quella promessa, dopo tanti anni che provo a convincerlo, e io riesco solo a biascicare quattro parole in croce, perché ho la febbre perché sono emozionata e perché voglio credere di avere il tempo per rendere quella promessa realtà.
Bologna inaspettata. Nonostante la febbre, il mal di pancia, i tempi stretti, il nervoso.
Ieri sera al Locomotive, con i Codeine, togliersi i tappi, sedersi appoggiando la schiena alla colonna del palco, appoggiare la macchina fotografica, chiudere gli occhi. Ascoltare.
E il bisogno disperato di qualcosa che mi colpisca al cuore.
Me ne vado. Saluto in fretta, un po' come se ci si rivedesse stasera, quando usciamo dai nostri uffici immaginari.
Non ho più voglia di ripartire promettendo di tornare.
Non ho più voglia di tornare dove non sono mai stata veramente.
Non sono in fuga, sono solo in viaggio.
Ma ho imparato a smettere di fare promesse da marinaio.
Verso Genova, la penultima lezione dell'anno con i ragazzi di fumetto alla Genoa Comics Academy e il mare in fondo al terrazzo.
Ora le mani sono pulite.
Mi siedo.
Voglio decidere se aprire quel libro nero di rabbia che mi hanno regalato, ascoltare della musica o scrivere questo post.
Ma prima dovrò togliere il rosso dal bianco e togliermi quel retrogusto ferroso in gola.
E poi sono marinai che incontrano mariai, a volte anche sui treni. Persone che si riconoscono in un attimo. O che forse hanno solo qualcosa da dirsi, o il bisogno di raccontarsi in quattro parole, scelte con cura, che aprono mille finestre, mille storie.
Appunto, raccontare storie. Rimanere in viaggio.
Perché a volte si nasce troppo liberi per stare fermi e non poter fare a meno di seguire la propria natura non sempre è sinonimo di felicità.
Probabilmente l'equilibrio è in quel punto immaginario che sta tra una valigia già pronta per partire e il ritorno.
Foto di Michele Formica ©
Ora dormi bambina mia, che è finalmente giugno e l'estate è arrivata, che il tempo non concede sconti a nessuno, che il viaggio è lungo e tu sei vestita di nero, hai la pelle bianca, i capelli rossi e ogni tanto ridi e sorridi per strada senza che nessuno possa capirne il motivo.
2 commenti:
Ecco, torna a casa, Bambina.
Vieni un po' a ricaricare le pile. Qui al mare. Qui a casa.
<3
Rossa. :) sono a casa. Intera, credo.
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