mercoledì 27 aprile 2011

Don't panic!

Ogni volta che devo partire per una fiera, o per un posto che è più lontano di due ore dal punto di partenza e dove non posso tornare per svariati giorni di fila, vado decisamente nel panico.
Mi accorgo nelle ultime ore di avere troppe cose da fare tutte insieme e di corsa.
Di perdere la nozione del tempo.
E di cercare di perdere dell'altro tempo dedicandomi a giochetti scemi che hanno come base l'autoironia.
Tipo fare una foto come questa:


Non contenta dell'ossimoro tra espressione e cartello la mando pure a un certo amico, il quale, dopo avermi preso per il culo un paio di minuti mi dice: "Si possono cambiare a piacimento le parole del cartello?".

Ottima idea. Ecco che parte il contest di primavera: scaricate la foto, cambiate il testo a piacimento (basta che non siano insulti banali rivolti alla sottoscritta, sforzatevi un minimo) e i migliori verranno pubblicati sul blog e vinceranno un caffè corretto se mai riusciranno a incontrarmi per la strada.

venerdì 22 aprile 2011

Negli angoli sghembi

Tra le prerogative di Genova c'è quella che l'andata è in salita e il ritorno è in salita.
A meno che tu non scelga di fare un percorso lineare che scende verso il mare. Ma è quasi impossibile.
Il lato positivo di tutto questo è che se vivi a Genova, difficilmente ti si affloscerà il culo.
Tra le scarpinate nelle crêuze, e i piani di scale da fare a piedi per arrivare a casa di certo l'attività fisica non manca.



Fuori da questa finestra c'è il mare. Ogni mattina mi sveglio sospesa sul porto della mia città, e in questi tempi di non lavoro mi permetto il lusso di perdere mezz'ora del mio tempo a bere il caffè fissando l'orizzonte. Uno dei pochi modi che conosco per far tacere il mondo che urla nella mia testa.
Per arrivare qui, ogni sera, sono circa trecento scalini, tra salita e scale di casa.
Ogni volta è come salire al Tempio.
I primi giorni ti si spezza il fiato a metà della crêuza, devi fare tre pause per riprendere fiato sulle rampe di casa.
Poi fila tutto liscio. Ti abitui e impari a farlo anche telefonando. È come un rito costante, che ti permette un risveglio migliore.



Genova ha un sacco di spigoli sghembi, di vicoli bui, di tagli di luce, e un direttore della fotografia fottutamente bravo.
Ha una luce che appartiene solo a lei, in grado di affascinarti e di tramortirti allo stesso tempo.

Genova riesce a risponderti quando meno te lo aspetti, in una piazzetta che si apre dopo due vicoli stretti, nella musica dei tuoi amici che suonano per strada. E lo fa sempre quando credi che non ci sia una risposta, quando ti chiedi se è davvero tutto perduto, se la tua scelta è stata quella giusta.
E ieri, tra un bicchiere di vino e l'altro, tra un pezzo e l'altro degli amici che suonavano in quella piazza, ha rimesso a posto tutti i pezzi che avevo perso in giro negli ultimi tre anni.
Gli incontri casuali, che qui non lo sono mai, le persone che dopo anni che non ti vedono ti abbracciano, e l'unica cosa che gli interessa di te non è il lavoro che fai, o quanta gloria tu abbia raggiunto. Sei tu. E ogni pietra di quella piazza, ogni sorriso delle persone che hai incontrato di nuovo ti urla che sei a casa. E che va tutto bene.
Sì, perché che cosa te ne fai della gloria o dei risultati che puoi ottenere in divenire, se attorno non hai le persone giuste con cui condividere tutto questo?

Come fai a sentirti felice se non sei mai nel posto dove ti trovi veramente? Se non cammini mai per delle strade che hanno storie da raccontarti per ogni passo che compi?
La strada che mi sono scelta è come Genova: affascinante, luminosa e piena di ombre e di trappole nello stesso momento. È un percorso in salita sia all'andata che al ritorno. Ti chiede di far fatica per risvegliarti nel modo migliore possibile per riempire gli occhi.
E all'inizio spezzerà il fiato. A volte, lo farà anche quando ti sentirai più allenato.

Non so qual è la parola giusta per dire come mi sento.
Per ora felice è la migliore che mi viene in mente.
E non c'è niente al mondo in grado di farmi più paura di questo.

lunedì 18 aprile 2011

A volte l'autoironia non basta.

Buongiorno è lunedì.
Buongiorno un emerito cazzo. È lunedì, e nella migliore delle tradizioni del mondo è un giorno del cazzo per la maggior parte della popolazione.
Dopotutto ti tocca ricominciare una settimana di sbattimenti, di lavori che non hai voglia di fare, di tensioni bla bla bla.
Ma tante volte il lunedì è solo il seguito della domenica. Perché anche il giorno prima hai lavorato fino a tardi e non te ne sei andato al mare perché avevi una consegna, lavori in un ristorante e o quello che è.
Be' fatto sta che questa mattina mi sono svegliata presto. La notte mi ero addormentata anche troppo tardi. Perché la mia cazzo di testa a volte non si spegne mai.
A volte la mia autoironia non basta per nulla a far smettere di gridare il mondo nelle mie orecchie.
Non mi basta prendermi per il culo perché, per quanto io mi sforzi di essere una persona per bene, sono una scapestrata che deve sempre ricominciare dalle macerie delle sue certezze. 

Ancora in pigiama ho letto la mail con il primo caffè in mano.
Ho aperto l'editor del blog e ho iniziato a scrivere questo post.
In cui volevo dire tutt'altro.
Ma oggi è lunedì. E dopo aver fatto un'illustrazione a tempo di record, aver corretto un testo e sistemato una serie di situazioni complicate in vista di Napoli Comicon e del Salone del Libro di Torino sono riuscita a completare questo post alle 16.00

Per cui non ha senso, anzi, come dicono nello stimatissimo blog di Lamentazioni, “Niente A Senso”.



domenica 17 aprile 2011

...

Stanotte ho sognato che la bozza di questo post fosse pubblicata senza che io me ne accorgessi.
Di trovare dei commenti che mi chiedevano perché avessi messo un post incompleto e che fondamentalmente non dice nulla.
Il fatto è che non volevo scriverlo.
Ultimamente vedo tutto (troppo) dal lato emotivo.
Non riesco a fare analisi lucide.
Non mi è mai riuscito particolarmente bene lo ammetto. Ma questa volta avrei voluto tantissimo avere una mente ferma e lucida. Guardare tutto dal di fuori.
Non ce la faccio. Non ci riesco.

Non volevo mettermi a scrivere anche io un coccodrilo.
Per quarantotto ore ho pianto silenziosamente davanti alle notizie dell'ansa.
Davanti agli articoli che ho letto in giro. Quelli che sono pieni di banalità e quelli scritti da chi Vittorio lo conosceva veramente.

Non come me, che lo conoscevo di "fama".
Che mi limitavo a seguirlo, leggerlo saltuariamente e a darlo per scontato, nei racconti di molti che sotto il cielo di Gaza ci sono passati, ma sono tornati indietro. Perché lui era una di quelle persone di cui, se sei stato in certi ambienti, se hai seguito e hai cercato di intervenire in certe cose non potevi non conoscerla. Non sapere chi fosse.

Anche chiudermi al mondo per ore senza connessione, a finire un articolo, a cercare di limare un racconto, di finire qualche bozzetto, non mi è servito a niente. A un certo punto alzo gli occhi guardo fuori dalla finestra e lo so. Lo so che la realtà è lì che aspetta. Anche quando cerco di non vederla.
E io so che ho una mente troppo piccola per comprendere fino in fondo la totalità degli eventi.

Mi odio perché penso all'ansia di finire un articoletto che parla di fumetti per Comic-Soon, perché mi chiedo che senso abbia scrivere di frivolezze e prendersi troppo sul serio quando lo si fa.
L'arte, tutta, ci serve a sopravvivere a questo mondo. Ma se è fine a se stessa non serve a cambiarlo.
Mi odio perché anni fa ho scelto di allontanarmi da certe situazioni perché riuscivo a raccontarmi la favoletta che anche fare fumetti e produrre cultura fosse una forma di resistenza.

Ne sono tutt'ora convinta. Ci sono un sacco di persone che questa cosa la mettono in pratica meglio di me. Che producono con i fumetti, con i libri, con il cinema medicinali ad ampio spettro. In grado di guarire le ferite, o quantomeno di scatenare una scintilla nella testa delle persone. Di farle pensare ancora.
Anche se ora mi sembro solo una persona fatta di chiacchiere. Perché le mani in certe storie non le ho più messe. Presa come sono dal bisogno di un riscontro professionale per quello che faccio.

Per questo la morte di Vittorio mi manda in pezzi.
Mi manda in pezzi nel lutto che sento nella voce degli amici comuni, e di quel lutto che percepisco anche senza aver il coraggio di chiamare gli altri.
Mi manda in pezzi quando tra i preferiti vedo che ho il suo blog, e che mi illudo che poi lui lo aggiorni ancora e che non sia successo nulla.
E perché sei una morte vicina, così vicina da non riuscire a guardare il video del tuo rapimento. Da stentare ancora a crederci.
Perché ho letto da tante parti che la "pace" viene privata di uno dei suoi figli migliori. Ed è vero.
Perché quando muore la speranza resta solo l'orrore che colpisce in pieno chi vorrebbe rimanere umano.
Perché durante l'operazione "Piombo Fuso" di due anni fa tu eri lì. Sulle ambulanze. A fare da scudo umano e a raccontarci quello che altri non avrebbero voluto farci sentire.


Io sotto quel cielo, sotto il cielo di Gaza non ci sono stata. Il passaporto quando ho provato a richiederlo per partire con la carovana Sport Sotto Assedio, anni fa, è rimasto bloccato per accertamenti in questura.
E sta ancora lì.

Ma lo leggevo. Sapevo chi fosse. E lo stimavo.
E per quanto sapessi che la sua scelta era tra le più complicate e difficili al mondo, non avrei mai pensato che potesse morire così.

Giovedì sera era un "ridatecelo indietro".
Nessuno di noi avrebbe mai potuto immaginare questa evoluzione degli eventi.
Nessuno di noi voleva trasformare una manifestazione per riaverti indietro in una manifestazione per ricordarti.

Ora ci sono troppe parole appese alle dita.
Troppa confusione.
E tanto dolore, e una rabbia che non riesco a spegnere in nessun modo.
Perché in questo mondo schifoso io mi occupo di fumetti.
Vedo le polemiche e le guerre assurde in un ambiente che dovrebbe preoccuparsi solo di vivere con un po' più di leggerezza e fare bene il proprio lavoro. Perché la cultura è importante. E le guerre, quelle vere, sono un'altra cosa.
Sono fatte di aerei carichi di bombe che rendono il cielo lattiginoso, di proiettili, e in Palestina anche del fumo del fosforo bianco.
Perché le galere a cielo aperto, com'è poi la Striscia di Gaza, noi non sappiamo nemmeno che cosa siano.
Perché noi lottiamo per avere un riconoscimento tra gli addetti ai lavori e abbiamo tantissimo tempo da perdere in sterili polemiche in internet.
E intanto il mondo fuori dalle nostre finestre urla incessantemente quanto fa schifo.
Urla così forte che se avessimo la decenza di ascoltarlo per un momento ci esploderebbe la testa.

E Vittorio è stato ucciso nel modo peggiore che io possa immaginare, nel modo in cui si ammazzano le speranze. Nel modo in cui si zittiscono le belle voci.

Lui ci diceva di "restare umani". Sì. Restiamo umani, ma nell'accezione migliore del termine. Non in altro modo.

Ciao Vittorio.





Seguendo questo LINK troverete un'analisi che non va presa come una verità assoluta, ma aiuta a fare un po' di chiarezza su questa situazione particolarmente complicata.
Potete farvi un'idea più chiara su di lui ascoltando la corrispondenza di una sua compagna che potete sentire QUI.

venerdì 8 aprile 2011

Con le valigie in mano.

Il titolo di questo post l'ho scritto due giorni fa.
Poi avevo scritto mille cose diverse.
Poi le ho cancellate tutte.
Esattamente come le cose che ho deciso di non portarmi più dietro, di buttare via perché non mi servono più.
E anche le prime parole di questo post non mi servivano più.

Siamo agli sgoccioli.
Tre anni fa mi sono trasferita a Roma, lasciando sulla linea del treno per Genova una scia di lacrime che pareva partissi per la guerra.

Ed è anche vero che per certi versi è stata una guerra.
Sono arrivata nella Capitale con una valigia, i gatti, e una montagna di sogni.
Con l'illusione che sarebbe andato tutto bene, che i miei sogni e la mia felicità fossero lì a portata di mano.
Ma i desideri sono dei figli di puttana e costano lacrime, sudore e amore.
L'ho già detto che non è stato facile. A dire il vero non conosco molte persone che hanno ottenuto quello che desideravano percorrendo una via facile.
Anzi, non credo proprio di conoscerle, o se le conosco mi rendo conto di non stimarle più di tanto.

Sono sempre stata circondata da gente incredibile, in tutte le mie “vite”.
Ho avuto l'estrema fortuna di crescere in mezzo a persone che non mi hanno difesa dalle difficoltà ma mi hanno insegnato ad affrontarle, senza ripiegarmi su me stessa alla prima sconfitta.
E tutti loro, che stanno sparsi un po' ai quattro angoli del globo (e su buona parte dell'Italia), io li amo profondamente.

Lunedì sarebbero esattamente tre anni dal mio arrivo a Roma.
Questo fine settimana è il momento di ripartire, di tornare a Genova con un furgone pieno di libri, di ricordi e senza aver più visto Phobos e Deimos.
Sì, ne ho parlato anche troppo di quei gatti. Lo so bene. Ma continuano a venirmi a trovare nei sogni. Succede, come succede per i grandi amori: ti rimangono sempre addosso.

Tutte le scatole sono pronte.
Tutte le valigie sono chiuse.
Vi ho abbracciati quasi tutti qui.
Maledetti, siete riusciti a farmi vacillare sulla mia decisione numero uno: dal primo giorno in cui sono arrivata a Roma ho sempre voluto andarmene, e per un attimo stavate per farmi cambiare idea.

Ma è solo un passaggio.
Chiudo una pagina di tre anni intensissimi, belli, faticosi, dolorosi, infelici, gioiosi. C'è stato tutto qui. Tranne un cielo che ho amato e il mare in fondo alle vie.

Ma ci siete stati voi, che stasera non avete giocato più quando è arrivato il tiramisù. Che mi avete abbracciata come se ci vedessimo domani per il caffè ma forse no aspetta non sto capendo molto bene.

Sono stata brava, è scesa solo una lacrima lunga, dopo i primi quattro passi da quando mi sono avviata verso casa.

Questa volta, appena partirò mi guarderò indietro, e so già che che grazie a voi tra i libri, i fumetti, i disegni, i vestiti e tutto il resto, mi sto portando via una nuova pelle. Dove è impresso qualcosa di indelebile come i miei tatuaggi, ma che possiamo vedere solo noi.

(se ve lo state chiedendo questa era la torta del compleanno mio e di LRNZ, proprio così)

(Rrobe non ti lamentare se è un post sentimentale).