lunedì 16 aprile 2012

Questi sono i binari

Scrivo poco, fotografo troppo, dormo troppo poco nella mia città e sono troppo spesso su qualche treno in giro con quella sensazione che mi si attacca addosso, che non mi fa più sentire da nessuna parte.

Così finisce che guardo il mio mare e mi sento come se avessi perso qualcosa in giro. 

Il problema è che non so che cosa sia.


Non appartengo alla razza dei viaggiatori, probabilmente appartengo molto di più a quella degli erranti. Quelli che non possono davvero fermarsi e che, anche se dovessero farlo, non saranno mai nel posto dove li vedete in quel momento. 

Forse è stato l'esempio di mio padre a portarmi a essere così: fin da bambina l'ho sempre visto con le valigie in mano. Una volta ho pure cercato di nascondermi dentro una sua valigia per farmi portare via con lui. E dopotutto, in modo diverso, è la stessa cosa che faccio anch'io da una decina d'anni. Ogni volta in modo diverso. 



In questo periodo lo faccio per lo più per seguire alcuni gruppi in giro e rubar loro l'anima con delle fotografie. 

Parafrasando i FBYC direi che sono tutti treni presi in fretta e cancelli scavalcati solo per non stare ferma



Un anno fa ho scritto un racconto. Non facevo fotografie e non viaggiavo poi così tanto. Avevo ancora lo “strascico lungo” del mio lavoro a Roma che mi teneva inchiodata alla scrivania delle settimane intere. 
Nei tre anni di Capitale ne ho fatti davvero pochi di viaggi, per i miei standard. 


È passato un anno e quel racconto mi è capitato tra le mani. L'ho riletto come si rilegge una premonizione. O qualcosa del genere. Anche se non ha nulla di autobiografico. A parte quello che mi è scappato di me dalle dita, mentre lo scrivevo. 


È la prima volta che rendo pubblico un mio racconto, che non lo mando privatamente a una delle tre persone che in genere leggono quelle cose mie che non sono delle estemporanee da blog. Probabilmente occuperà un sacco di spazio.
Quello che gli serve.



Questi sono i binari. 


Non tutte le stazioni sono uguali. Non nella loro estetica quantomeno. Anche se hanno una serie di dettagli che le accomunano e le rendono sempre uguali a se stesse. Il rumore degli altoparlanti, le masse di persone che si trascinano valigie e zaini in attesa dei treni ai binari, le loro mura che, per quanto si possa cercare di ridipingere, trasudano l'odore della gente di passaggio. Un odore strano, carico di suoni e di sensazioni, più che altro. Qualcosa che si attacca come uno stereotipo ai binari bagnati dalla pioggia.
Temporale.
Fino a mezz'ora fa c'era un sole bellissimo e quasi estivo che splendeva tra i tetti della città, in un tentativo stoico di abbagliare gli occhi smorzando il grigiore che le appartiene.
Riusciva ad attutire il chiasso, a farlo scivolare addosso.

Elena è sul treno in questo momento, ferma in stazione, e aspetta che parta con il caratteristico ritardo. Dopotutto è un treno italiano, e lei c'è abituata. Ormai quando deve dare l'orario di arrivo lo fa sempre calcolando direttamente cinque minuti in più rispetto a quelli scritti sul biglietto.
Appoggia la testa al sedile e guarda fuori dal finestrino il susseguirsi di valigie, di corse per salire sui treni, di rumori, di immagini sulle decine di schermi piatti a ogni binario della stazione (la cui utilità è solo quella di mandare pubblicità in loop, per tramortire le menti già stanche dei viaggiatori).

«Cosa ho fatto andare storto questa volta?».

Non le va di ripartire subito. È troppo tempo che vive con le valigie in mano, spostandosi continuamente da una città all'altra. È tornata da poco in Italia e in meno di una settimana ha coperto quasi tutto il territorio nazionale. E non l'ha fatto per vagabondaggio, non è una fricchettona che se ne va in giro per il mondo a predicare l'amore universale. Non può farne a meno, è come un istinto irrazionale che la costringe a rimanere sempre in movimento. Come se non riuscisse in nessun modo a restare ferma in un punto, a dormire più di qualche notte nello stesso letto, ad abituarsi a un panorama.

«Che ci vai a fare lì domani? Sei tornata l'altro ieri dopo tre anni e già riparti! Ma ti sembra il modo? Cosa devo fare per vederti? Devo andare a lavorare in una compagnia aerea o come capotreno? Non lo so, magari imbarcarmi sarebbe un altro modo per incontrarti. E quel cazzo di telefono. Che te lo abbiamo regalato a fare se non lo accendi mai? E quando lo tieni acceso poi... sembra quasi che tu non abbia orecchie per sentirlo suonare!»
«Sì, hai ragione. Ma spesso sono in situazioni assurde e le chiamate costano un sacco! Non potresti semplicemente mandarmi delle mail? E poi ti richiamo sempre, appena posso. Dai, papà, sembri quasi un fidanzato geloso! E comunque vado a cercare un lavoro. Prima o poi dovrò fermarmi da qualche parte, no?»
«Un lavoro lì? Ma, Elena! Non dire cose a cui non credi nemmeno tu. Quella città ti fa venire l'orticaria dopo dodici ore. Perché non cerchi qualcosa qui? Per stare vicino a me?».

Come poteva spiegarlo a suo padre che quello era un posto dove non si sarebbe fatta nemmeno seppellire? E poi c'era Maria, la sorella più giovane, che pareva ben radicata lì, come se niente la potesse portare via da quello schifoso paesino di provincia pieno di nebbia, e questo le bastava per non sentirsi troppo in colpa.
E poi ancora... suo padre la stupiva, sempre. Era sempre capace di capire al volo quello che pensava realmente. Una capacità che la madre, quando era ancora viva, gli aveva sempre invidiato.

Cosa ci andava a fare nel caos di Roma?

Il treno sta uscendo dalla stazione di Termini. In quel momento Elena è ovunque tranne che seduta accanto a quel finestrino. Scorrono le mura, scorrono le stazioni e il treno prende velocità.
Quasi all'ora del tramonto inizia a costeggiare il mare. Non è una tratta ad alta velocità quella che la porta a nord-ovest, così ha tutto il tempo per godersi il sole che si spegne nel mare.
Si spegne. Come si spegne Elena in quel momento. Come un barattolo di vernice rossa colpito da una raffica di proiettili che, esplodendo, ha imbrattato un muro bianco.
È così che si sente.
Guarda il lento scorrere del paesaggio, assorta. Ha perso il conto delle stazioni, delle persone che sono cambiate accanto a lei nello scompartimento. È completamente altrove.

Perché aveva deciso di tornare a Roma? Così all'improvviso poi, e per meno di mezza giornata. Due appuntamenti, che hanno poco a che fare con il lavoro e un paio di saluti fugaci, uno strappo alla regola e due birre a mezzo pomeriggio, e poi di nuovo su un treno, trascinandosi la valigia per percorrere centinaia di chilometri. Una tappa in Liguria e domani l'aspetta Marsiglia.



«Signorina, mi scusi, potrebbe aiutarmi a tirare giù la valigia? Signorina?»
Elena esce dai suoi pensieri.
«Sì certo... mi scusi ero un po' distratta»
«Lo vedo bene che è distratta, sa? È da quando è partito il treno da Roma che lei continua a guardare fuori dal finestrino. Non si è nemmeno accorta del controllore quando è passato!»
«Ho un po' di pensieri nella testa, caspita come pesa la sua valigia! Ecco fatto»
«Vuole dirmi cosa vede fuori dal finestrino?»
«In che senso cosa vedo?»
«Be', lei guarda fuori dal finestrino con così tanta concentrazione che sembra che guardi un punto preciso»
«Vedo quello che vedono tutti. Montagne, città, mare che scorrono uno dopo l'altro. Non posso certo guardare un punto fermo mentre sono in viaggio»
«Sicura che non ci sia dell'altro? Vede, lei sta dando le spalle al senso di marcia da quando siamo partiti. Io credo che lei stia più che altro guardando quello che si lascia indietro. Sa, è per questo che cerco sempre di sedermi nel verso giusto del treno. Mica per tutte quelle sciocchezze che dice la gente, come il fatto che gli vien mal di pancia o cose del genere. Io voglio solo vedere a cosa sto andando incontro. Non voglio guardare quello che mi lascio indietro quando viaggio. Ora la saluto, mi scusi il disturbo. Faccia buon viaggio, signorina»
«A… arrivederci!».

Forse il vecchio non aveva tutti i torti. Effettivamente a Roma c'è andata solo per guardare negli occhi il suo punto fisso. Il suo amore impossibile. Quello che continua a cercare fuori dal finestrino mentre è in viaggio.
Ma a trent'anni puoi ancora perdere tempo con gli amori impossibili? Con gli uomini che potranno guardarti solo a metà, perché la vita l'hanno già legata a un'altra compagna?

Elena l'ha avuto, un uomo. Certo che sì. Dopotutto è sempre stata una bella ragazza, con poche pretese di essere osannata per il suo aspetto.
L'ha avuto per sette anni e tre anni fa era finito tutto. Lei se ne era andata una volta di troppo.
Lui, come tutti gli altri che ha incontrato dopo, ha bisogno di una donna che non abbia la prerogativa di sparire da un momento all'altro. Di una con cui costruire le basi di un idillio, con cui vivere la semplice realtà di tutti i giorni. Che sia lì ad aspettarlo quando torna. Che non abbia domande troppo complicate da rivolgere al mondo.
Lei invece non aspetta mai nessuno. Non è mai riuscita a farlo.
Sono anni che vaga alla ricerca di qualcosa che sia in grado di tenerla ferma per un periodo più lungo di due mesi. Sono tre anni che non si ferma mai. Si è creata dal nulla il suo lavoro di fotografa. Cattura con la sua macchina fotografica ogni angolo dei posti dove è stata. Ogni scorcio pieno di anima nelle periferie. Ogni sguardo capace di raccontare la realtà di cui lei è partecipe.
E poi riparte.
Aerei, treni e navi. Costantemente con le valigie in mano e la macchina fotografica al collo.
Si sente un po' un marinaio, a volte. Ha lasciato i suoi grandi amori in ogni porto. Ha saziato della promessa di tornare decine di uomini che rimarranno ad aspettarla, sapendo benissimo che lei in realtà non tornerà.

Luca è solo l'ultimo di una lunga serie. L'ultimo di quelli che l'hanno incontrata che è rimasto abbagliato e sconvolto da lei. Che ha desiderato stringerla tra le braccia, annusare il profumo della sua pelle nella vana speranza di poterla tenere con sé.
Luca che ha abbattuto le sue difese come se fossero castelli di carte. Lei che è così rigida con se stessa e con gli altri, che non lascia a nessuno troppo spazio dentro di sé, per non sentirsi poi obbligata a sentirne la presenza. Luca, che invece si è fatto strada con una naturalezza tale da riuscire a riempire uno spazio vuoto immenso.

«Quel maledetto! Ha iniziato così, come se fosse normale scriversi un milione di mail mentre io sono in capo al mondo, che mi ha sempre detto di non aver paura di lui. E che oggi, quando mi ha abbracciata non è riuscito a nascondere niente, era come nudo davanti a me».

Era stato proprio lui a cercarla. Era finito sul suo portfolio, e ci aveva passato buona parte della notte a sfogliarlo e a ripercorrere i viaggi di Elena. Era stato con lei in Sudamerica, in Cina, In Corea, nel deserto della Giordania, in Africa. Aveva mangiato con lei cibi improbabili, contato i passi sotto il sole cocente che li separavano dall'acqua. Aveva avuto mal di pancia, mal di vivere esattamente come lei.
E aveva deciso di scriverle. Per quanto possa sembrare moderna una mail, a lui sembrava così strano conoscere una persona scrivendole.
Si erano incontrati una sola volta. Per caso e in un punto a caso del mondo. Avevano scolato due bottiglie di vino rosso, parlando come vecchi amici, perdendo subito l'imbarazzo di essersi incontrati inaspettatamente. Si erano salutati con un abbraccio, come nelle migliori storie romantiche e si erano promessi di incontrarsi di nuovo. Da qualche parte. Magari quando i piedi di Elena avrebbero toccato di nuovo il suolo italiano.

Era passato un anno.
Un anno di mail quotidiane, di resoconti minuziosi delle loro giornate, al limite del parlare delle banalità. Di sfoghi, di “quando torni?”.
Ma quella è sempre la domanda sbagliata per Elena. E lei lo sa bene. Si fa rimproverare da un padre che ha viaggiato più di lei, che il giorno in cui è nata non è riuscito a fermarlo. Ci ha dovuto pensare la morte della madre a obbligarlo a rimanere fermo in un punto.

Elena passa, si fa vedere, ma non torna mai veramente.

Era tornata in Italia e aveva scritto a Luca. Era corsa a Roma. L'aveva incontrato. Due ore veloci, che lui doveva andare a prendere la fidanzata e lei aveva appena deciso di prendere un treno in quel momento prenotando il biglietto dall'iPhone, facendo finta che fossi già così nei programmi.
«Scusami, mi dispiace non poterla conoscere».

Mentre andava in stazione, in un attimo il cielo si era fatto nero. Saliva via Cavour trascinandosi la valigia senza pensare a niente. Se non che ogni volta lasciava un pezzo di cuore nei posti in cui passava, nelle storie delle persone che incontrava, nei suoi amori impossibili che si lasciava dietro. E che avrebbe voluto cambiare il mondo con le sue sole forze, anche se sapeva di non conoscerlo abbastanza.

Non le era mai pesato ripartire. Nemmeno il fatto di farlo sempre da sola. Anzi. Le piaceva tutto quel tempo per sé, e il suo “personaggio” pieno di amori frammentati e sparsi in ogni dove.

Questa volta però avrebbe voluto scendere dal treno prima che partisse. Fare il percorso all'indietro, andare da Luca, suonare il campanello e perdere il senso della responsabilità. Abbandonarsi per una notte tra le braccia di qualcuno che avrebbe potuto aiutarla a zittire il mondo che le urla nella testa. Perdere la cognizione del tempo. Fermarsi per un po' intorno a un punto fermo, e basta.


Oltre la prossima galleria è arrivata. I tetti grigi già le hanno annunciato che è in Liguria. Oltre quella galleria c'è l'unica città dove per un po' ha creduto di poter invecchiare, che l'aspetta per l'ennesimo passaggio. Per vederla ripartire.

«Questi sono i binari, dopotutto, e non è che permettono deviazioni, o un'inversione di marcia repentina. Puoi solo arrivare a destinazione.».
Scende dal treno. Ormai è buio, la stazione è quasi deserta e nonostante tutto è uguale a mille altre stazioni deserte che ha visto milioni di volte. Il rumore delle valigie degli ultimi passeggeri è sempre identico a sé stesso. Come le pareti che raccontano i passaggi, come l'aereo che prenderà domani mattina. Come i binari bagnati dalla pioggia.  

R. Amal Serena - Aprile 2011


giovedì 12 aprile 2012

Lettera aperta al mio sistema immunitario


Un terribile ritratto dell'autrice di questo blog durante la fase acuta della sua malattia primaverile che le è costata uno sputtanamento collettivo.

Egregio Sistema Immunitario, 
dopo che ho gioito e ho cantato a tutte e tutti e le tue lodi per avermi fatto passare quasi indenne un inverno impegnativo, ti chiedo: perché farmi ammalare così pesantemente a primavera? 
Non sarebbe possibile farmi guarire prima di ieri per favore?
Vorrei ricordarti che pure Alessandro Magno è morto di un semplice raffreddore e io non vorrei fare la stessa fine. 
Mi rendo conto che è una richiesta che può apparire bizzarra ma io mi sento impossibilitata a svuotare le miriadi di impegni che affollano le pagine della mia agenda finché tu mi blocchi a letto così.
Ti prego di ascoltare questa mia richiesta e di farmi riprendere al più presto così che io possa mantener fede ai miei impegni e cantare la tua gloria alle generazioni future. 

Tua (ammalatissima e latitante)
Amal.