Così finisce che guardo il mio mare e mi sento come se avessi perso qualcosa in giro.
Il problema è che non so che cosa sia.
Non appartengo alla razza dei viaggiatori, probabilmente appartengo molto di più a quella degli erranti. Quelli che non possono davvero fermarsi e che, anche se dovessero farlo, non saranno mai nel posto dove li vedete in quel momento.
Forse è stato l'esempio di mio padre a portarmi a essere così: fin da bambina l'ho sempre visto con le valigie in mano. Una volta ho pure cercato di nascondermi dentro una sua valigia per farmi portare via con lui. E dopotutto, in modo diverso, è la stessa cosa che faccio anch'io da una decina d'anni. Ogni volta in modo diverso.
In questo periodo lo faccio per lo più per seguire alcuni gruppi in giro e rubar loro l'anima con delle fotografie.
Parafrasando i FBYC direi che sono tutti treni presi in fretta e cancelli scavalcati solo per non stare ferma.
Un anno fa ho scritto un racconto. Non facevo fotografie e non viaggiavo poi così tanto. Avevo ancora lo “strascico lungo” del mio lavoro a Roma che mi teneva inchiodata alla scrivania delle settimane intere.
Nei tre anni di Capitale ne ho fatti davvero pochi di viaggi, per i miei standard.
È passato un anno e quel racconto mi è capitato tra le mani. L'ho riletto come si rilegge una premonizione. O qualcosa del genere. Anche se non ha nulla di autobiografico. A parte quello che mi è scappato di me dalle dita, mentre lo scrivevo.
È la prima volta che rendo pubblico un mio racconto, che non lo mando privatamente a una delle tre persone che in genere leggono quelle cose mie che non sono delle estemporanee da blog. Probabilmente occuperà un sacco di spazio.
Quello che gli serve.
Questi sono i binari.
Non tutte le stazioni sono uguali. Non nella loro estetica quantomeno. Anche se hanno una serie di dettagli che le accomunano e le rendono sempre uguali a se stesse. Il rumore degli altoparlanti, le masse di persone che si trascinano valigie e zaini in attesa dei treni ai binari, le loro mura che, per quanto si possa cercare di ridipingere, trasudano l'odore della gente di passaggio. Un odore strano, carico di suoni e di sensazioni, più che altro. Qualcosa che si attacca come uno stereotipo ai binari bagnati dalla pioggia.
Temporale.
Fino a mezz'ora fa c'era un sole
bellissimo e quasi estivo che splendeva tra i tetti della città, in
un tentativo stoico di abbagliare gli occhi smorzando il grigiore che
le appartiene.
Riusciva ad attutire il chiasso, a
farlo scivolare addosso.
Elena è sul treno in questo momento,
ferma in stazione, e aspetta che parta con il caratteristico ritardo.
Dopotutto è un treno italiano, e lei c'è abituata. Ormai quando
deve dare l'orario di arrivo lo fa sempre calcolando direttamente
cinque minuti in più rispetto a quelli scritti sul biglietto.
Appoggia la testa al sedile e guarda
fuori dal finestrino il susseguirsi di valigie, di corse per salire
sui treni, di rumori, di immagini sulle decine di schermi piatti a
ogni binario della stazione (la cui utilità è solo quella di
mandare pubblicità in loop, per tramortire le menti già stanche dei
viaggiatori).
«Cosa ho fatto andare storto questa
volta?».
Non le va di ripartire subito. È
troppo tempo che vive con le valigie in mano, spostandosi
continuamente da una città all'altra. È tornata da poco in Italia e
in meno di una settimana ha coperto quasi tutto il territorio
nazionale. E non l'ha fatto per vagabondaggio, non è una
fricchettona che se ne va in giro per il mondo a predicare l'amore
universale. Non può farne a meno, è come un istinto irrazionale che
la costringe a rimanere sempre in movimento. Come se non riuscisse in
nessun modo a restare ferma in un punto, a dormire più di qualche
notte nello stesso letto, ad abituarsi a un panorama.
«Che ci vai a fare lì domani? Sei
tornata l'altro ieri dopo tre anni e già riparti! Ma ti sembra il
modo? Cosa devo fare per vederti? Devo andare a lavorare in una
compagnia aerea o come capotreno? Non lo so, magari imbarcarmi
sarebbe un altro modo per incontrarti. E quel cazzo di telefono. Che
te lo abbiamo regalato a fare se non lo accendi mai? E quando lo
tieni acceso poi... sembra quasi che tu non abbia orecchie per
sentirlo suonare!»
«Sì, hai ragione. Ma spesso sono in
situazioni assurde e le chiamate costano un sacco! Non potresti
semplicemente mandarmi delle mail? E poi ti richiamo sempre, appena
posso. Dai, papà, sembri quasi un fidanzato geloso! E comunque vado
a cercare un lavoro. Prima o poi dovrò fermarmi da qualche parte,
no?»
«Un lavoro lì? Ma, Elena! Non dire
cose a cui non credi nemmeno tu. Quella città ti fa venire
l'orticaria dopo dodici ore. Perché non cerchi qualcosa qui? Per
stare vicino a me?».
Come poteva spiegarlo a suo padre che
quello era un posto dove non si sarebbe fatta nemmeno seppellire? E
poi c'era Maria, la sorella più giovane, che pareva ben radicata lì,
come se niente la potesse portare via da quello schifoso paesino di
provincia pieno di nebbia, e questo le bastava per non sentirsi
troppo in colpa.
E poi ancora... suo padre la stupiva,
sempre. Era sempre capace di capire al volo quello che pensava
realmente. Una capacità che la madre, quando era ancora viva, gli
aveva sempre invidiato.
Cosa ci andava a fare nel caos di Roma?
Il treno sta uscendo dalla stazione di
Termini. In quel momento Elena è ovunque tranne che seduta accanto a
quel finestrino. Scorrono le mura, scorrono le stazioni e il treno
prende velocità.
Quasi all'ora del tramonto inizia a
costeggiare il mare. Non è una tratta ad alta velocità quella che
la porta a nord-ovest, così ha tutto il tempo per godersi il sole
che si spegne nel mare.
Si spegne. Come si spegne Elena in quel
momento. Come un barattolo di vernice rossa colpito da una raffica di
proiettili che, esplodendo, ha imbrattato un muro bianco.
È così che si sente.
Guarda il lento scorrere del paesaggio,
assorta. Ha perso il conto delle stazioni, delle persone che sono
cambiate accanto a lei nello scompartimento. È completamente
altrove.
Perché aveva deciso di tornare a Roma? Così all'improvviso poi, e per meno di mezza giornata. Due appuntamenti, che hanno poco a che fare con il lavoro e un paio di saluti fugaci, uno strappo alla regola e due birre a mezzo pomeriggio, e poi di nuovo su un treno, trascinandosi la valigia per percorrere centinaia di chilometri. Una tappa in Liguria e domani l'aspetta Marsiglia.
«Signorina, mi scusi, potrebbe
aiutarmi a tirare giù la valigia? Signorina?»
Elena esce dai suoi pensieri.
«Sì certo... mi scusi ero un po'
distratta»
«Lo vedo bene che è distratta, sa? È
da quando è partito il treno da Roma che lei continua a guardare
fuori dal finestrino. Non si è nemmeno accorta del controllore
quando è passato!»
«Ho un po' di pensieri nella testa,
caspita come pesa la sua valigia! Ecco fatto»
«Vuole dirmi cosa vede fuori dal
finestrino?»
«In che senso cosa vedo?»
«Be', lei guarda fuori dal finestrino
con così tanta concentrazione che sembra che guardi un punto
preciso»
«Vedo quello che vedono tutti.
Montagne, città, mare che scorrono uno dopo l'altro. Non posso certo
guardare un punto fermo mentre sono in viaggio»
«Sicura che non ci sia dell'altro?
Vede, lei sta dando le spalle al senso di marcia da quando siamo
partiti. Io credo che lei stia più che altro guardando quello che si
lascia indietro. Sa, è per questo che cerco sempre di sedermi nel
verso giusto del treno. Mica per tutte quelle sciocchezze che dice la
gente, come il fatto che gli vien mal di pancia o cose del genere. Io
voglio solo vedere a cosa sto andando incontro. Non voglio guardare
quello che mi lascio indietro quando viaggio. Ora la saluto, mi scusi
il disturbo. Faccia buon viaggio, signorina»
«A… arrivederci!».
Forse il vecchio non aveva tutti i
torti. Effettivamente a Roma c'è andata solo per guardare negli
occhi il suo punto fisso. Il suo amore impossibile. Quello che
continua a cercare fuori dal finestrino mentre è in viaggio.
Ma a trent'anni puoi ancora perdere
tempo con gli amori impossibili? Con gli uomini che potranno
guardarti solo a metà, perché la vita l'hanno già legata a
un'altra compagna?
Elena l'ha avuto, un uomo. Certo che
sì. Dopotutto è sempre stata una bella ragazza, con poche pretese
di essere osannata per il suo aspetto.
L'ha avuto per sette anni e tre anni fa
era finito tutto. Lei se ne era andata una volta di troppo.
Lui, come tutti gli altri che ha
incontrato dopo, ha bisogno di una donna che non abbia la prerogativa
di sparire da un momento all'altro. Di una con cui costruire le basi
di un idillio, con cui vivere la semplice realtà di tutti i giorni.
Che sia lì ad aspettarlo quando torna. Che non abbia domande troppo
complicate da rivolgere al mondo.
Lei invece non aspetta mai nessuno. Non
è mai riuscita a farlo.
Sono anni che vaga alla ricerca di
qualcosa che sia in grado di tenerla ferma per un periodo più lungo
di due mesi. Sono tre anni che non si ferma mai. Si è creata dal
nulla il suo lavoro di fotografa. Cattura con la sua macchina
fotografica ogni angolo dei posti dove è stata. Ogni scorcio pieno
di anima nelle periferie. Ogni sguardo capace di raccontare la realtà
di cui lei è partecipe.
E poi riparte.
Aerei, treni e navi. Costantemente con
le valigie in mano e la macchina fotografica al collo.
Si sente un po' un marinaio, a volte.
Ha lasciato i suoi grandi amori in ogni porto. Ha saziato della
promessa di tornare decine di uomini che rimarranno ad aspettarla,
sapendo benissimo che lei in realtà non tornerà.
Luca è solo l'ultimo di una lunga
serie. L'ultimo di quelli che l'hanno incontrata che è rimasto
abbagliato e sconvolto da lei. Che ha desiderato stringerla tra le
braccia, annusare il profumo della sua pelle nella vana speranza di
poterla tenere con sé.
Luca che ha abbattuto le sue difese
come se fossero castelli di carte. Lei che è così rigida con se
stessa e con gli altri, che non lascia a nessuno troppo spazio dentro
di sé, per non sentirsi poi obbligata a sentirne la presenza. Luca,
che invece si è fatto strada con una naturalezza tale da riuscire a
riempire uno spazio vuoto immenso.
«Quel maledetto! Ha iniziato così,
come se fosse normale scriversi un milione di mail mentre io sono in
capo al mondo, che mi ha sempre detto di non aver paura di lui. E che
oggi, quando mi ha abbracciata non è riuscito a nascondere niente,
era come nudo davanti a me».
Era stato proprio lui a cercarla. Era
finito sul suo portfolio, e ci aveva passato buona parte della notte
a sfogliarlo e a ripercorrere i viaggi di Elena. Era stato con lei in
Sudamerica, in Cina, In Corea, nel deserto della Giordania, in
Africa. Aveva mangiato con lei cibi improbabili, contato i passi
sotto il sole cocente che li separavano dall'acqua. Aveva avuto mal
di pancia, mal di vivere esattamente come lei.
E aveva deciso di scriverle. Per quanto
possa sembrare moderna una mail, a lui sembrava così strano
conoscere una persona scrivendole.
Si erano incontrati una sola volta. Per
caso e in un punto a caso del mondo. Avevano scolato due bottiglie di
vino rosso, parlando come vecchi amici, perdendo subito l'imbarazzo
di essersi incontrati inaspettatamente. Si erano salutati con un
abbraccio, come nelle migliori storie romantiche e si erano promessi
di incontrarsi di nuovo. Da qualche parte. Magari quando i piedi di
Elena avrebbero toccato di nuovo il suolo italiano.
Era passato un anno.
Un anno di mail quotidiane, di
resoconti minuziosi delle loro giornate, al limite del parlare delle
banalità. Di sfoghi, di “quando torni?”.
Ma quella è sempre la domanda
sbagliata per Elena. E lei lo sa bene. Si fa rimproverare da un padre
che ha viaggiato più di lei, che il giorno in cui è nata non è
riuscito a fermarlo. Ci ha dovuto pensare la morte della madre a
obbligarlo a rimanere fermo in un punto.
Elena passa, si fa vedere, ma non torna
mai veramente.
Era tornata in Italia e aveva
scritto a Luca. Era corsa a Roma. L'aveva incontrato. Due ore veloci,
che lui doveva andare a prendere la fidanzata e lei aveva appena
deciso di prendere un treno in quel momento prenotando il biglietto
dall'iPhone, facendo finta che fossi già così nei programmi.
«Scusami, mi dispiace non poterla
conoscere».
Mentre andava in stazione, in un attimo
il cielo si era fatto nero. Saliva via Cavour trascinandosi la
valigia senza pensare a niente. Se non che ogni volta lasciava un
pezzo di cuore nei posti in cui passava, nelle storie delle persone
che incontrava, nei suoi amori impossibili che si lasciava dietro. E
che avrebbe voluto cambiare il mondo con le sue sole forze, anche se
sapeva di non conoscerlo abbastanza.
Non le era mai pesato ripartire.
Nemmeno il fatto di farlo sempre da sola. Anzi. Le piaceva tutto quel
tempo per sé, e il suo “personaggio” pieno di amori frammentati
e sparsi in ogni dove.
Questa volta però avrebbe voluto
scendere dal treno prima che partisse. Fare il percorso all'indietro,
andare da Luca, suonare il campanello e perdere il senso della
responsabilità. Abbandonarsi per una notte tra le braccia di
qualcuno che avrebbe potuto aiutarla a zittire il mondo che le urla
nella testa. Perdere la cognizione del tempo. Fermarsi per un po'
intorno a un punto fermo, e basta.
Oltre la prossima galleria è arrivata.
I tetti grigi già le hanno annunciato che è in Liguria. Oltre
quella galleria c'è l'unica città dove per un po' ha creduto di
poter invecchiare, che l'aspetta per l'ennesimo passaggio. Per
vederla ripartire.
«Questi sono i binari, dopotutto, e
non è che permettono deviazioni, o un'inversione di marcia
repentina. Puoi solo arrivare a destinazione.».
Scende dal treno. Ormai è buio, la
stazione è quasi deserta e nonostante tutto è uguale a mille altre
stazioni deserte che ha visto milioni di volte. Il rumore delle
valigie degli ultimi passeggeri è sempre identico a sé stesso. Come
le pareti che raccontano i passaggi, come l'aereo che prenderà
domani mattina. Come i binari bagnati dalla pioggia.
R. Amal Serena - Aprile 2011
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